Non aveva pubblicato una sola poesia in vita, ma Antonia Pozzi, suicida a ventisei anni, ci ha lasciato versi, lettere, pagine di diario e fotografie. Con perizia di documentarista Paolo Cognetti intreccia parole e immagini di lei con i suoi interventi nel volume “L’Antonia”: «Resisterà alla polvere del tempo»
Molto è già stato scritto su Antonia Pozzi. Giovane poeta milanese morta suicida a soli ventisei anni, nel 1938. Nella sua breve vita ci ha lasciato non pochi versi, lettere, pagine di diario e altrettanto numerose fotografie. Eppure quando si parla di lei c’è sempre l’impressione di qualcosa di sospeso. Come se «la troppa vita» che le scorreva nel sangue non si sia mai voluta rivelare fino in fondo.
Potrebbe essere altrimenti? Non per lei, non per loro: «le imperdonabili» (come ha suggerito Laura Bollea in un saggio omonimo, mutuando e ampliando una categoria – l’imperdonabilità – che fu già di Cristina Campo). Ispirate, estreme, distruttive, ma soprattutto indecifrabili. Hanno bisogno di parole e si espongono alla storia senza alcuna protezione. Della loro opera e della loro vita, indissolubilmente unite, non si può che continuare a scrivere.
Cognetti, voice over che guida
E così ha fatto anche Paolo Cognetti con il suo L’Antonia (224 pagine, 16 euro) edito da Ponte alle Grazie, un libro affettuoso, non solo nel titolo. Intrecciando parole e immagini di lei con i suoi interventi, l’autore (già vincitore dello Strega con Le otto montagne, Einaudi 2016) si avvale qui della sua perizia di documentarista. È proprio la sua voice over a guidarci, sempre lieve, nel flusso di frammenti di un’esistenza, quella di Pozzi, breve e intensa. Grazie a un abile montaggio, della giovane poeta, fotografa e anche alpinista ne esce un ritratto vivido che scorre agli occhi del lettore come un docufilm.
Ma c’è dell’altro. Un filo lega Cognetti a Pozzi e parte da Milano, attraversa l’amore per la montagna e conduce alla scrittura. Queste le cose che hanno in comune. E vale la pena seguirlo quel filo, o forse meglio quel cordino da arrampicata. Tanto più che il volume esce per la colonna “Passi”, in collaborazione con il Club Alpino Italiano.
Antonia, come l’autore, nasce a Milano d’inverno. Lei nel 1912. Vive e cresce in un’elegante palazzo di Via Mascheroni, un quartiere signorile e borghese poco distante da Parco Sempione. «Non si sentiva legata né a quella casa, di cui non ha mai scritto nulla, né del resto a Milano» precisa Cognetti. Eppure sarà proprio nella capitale lombarda che Pozzi inizia a esplorare il mondo con il «desiderio di scattare fuori, nell’invadente sole» che la contraddistingue fin da bambina. «Per raccogliere un pugnetto di more».
Luoghi, incontri, amori
I salotti del centro, la Scala e il Conservatorio, le aule del Manzoni e della Statale, questi i suoi luoghi, che significheranno soprattutto incontri. Qui conoscerà le persone più importanti della vita. Le amiche del cuore, come la Cia (Lucia Bozzi), che la chiamerà sempre el me Tugnin. E i compagni di corso, gli amici degli anni Trenta, tra cui si contano molti futuri intellettuali dell’Italia del dopoguerra. Da Vittorio Sereni ad Alberto Mondadori, i fratelli Treves, Paolo e Piero, Enzo Paci. Quasi tutti antifascisti, lei figlia del podestà di Pasturo. Alcuni ebrei.
Ed è sempre a Milano che Antonia si innamora «con sovrabbondanza e inesperienza», o più semplicemente come succede con pochi anni alle spalle: prima di Antonio Maria Cervi, il carismatico professore di latino e greco, poi del promettente Remo Cantoni, e infine del più giovane Dino Formaggio. Grazie a lui, a quel ragazzo che veniva dal proletariato, in contatto con il partito socialista clandestino, Pozzi scoprirà le periferie, le fabbriche, Via dei Cinquecento.
Ritrovare se stessa fra le vette
Ma nonostante tutto, la città le toglie la gioia. Perché l’Antonia, esordisce Cognetti in apertura, era «una ragazza milanese innamorata della montagna». La sua vera casa sarà a Pasturo, nella contadina e povera Valsassina, dove il padre aveva acquistato una villa del Settecento. Sotto la finestra della studio c’è ancora oggi un tavolo, «il mio porto» scriveva Pozzi nelle lettere agli amici, che invitava sempre in quella casa «perché vederli qui è come una consacrazione». E nella sua «vecchia cara stanza» arriva anche Cognetti per scoprire cosa vedeva Antonia Pozzi quando alzava gli occhi dal foglio. Vedeva la Grigna settentrionale, detta anche il Grignone, fino alla cima. Lassù, a 2400 metri d’altezza, la giovane donna salirà in solitaria una notte d’agosto «prima dell’alba, sola sulla vetta, sotto il sorriso gelido delle ultime stelle». E lì tra le vette che ritrova la più completa se stessa.
«Non ho più né pensieri né parole. Soltanto occhi per guardare e muscoli per camminare» scriverà alla Cia dalle nevi di Madonna di Campiglio. Sì. perché dopo la Grigna ci saranno le Dolomiti del Brenta, le Pale di San Martino. E l’Antonia inizia ad arrampicare. È iscritta al Cai fin da bambina, «un’abitudine della buona borghesia milanese» ci ricorda Cognetti. «La montagna è una palestra insuperabile per l’anima e per il corpo» scriverà Antonia all’amatissima nonna Nena, l’indomani della sua prima ascensione. «A palmo a palmo, con l’arcuata tensione della dita, con la piatta aderenza delle membra, si guadagna la roccia. E poi, in vetta… l’adorazione selvaggia della tua fragilezza ardente che vince la materia». E quindi il Cervino. «La malattia del Cervino». Nel luglio del 1933 Antonia Pozzi partecipa a un campeggio del Cai nella conca del Breuil, ai piedi della Gran Becca. Ed è subito «gioia di cantare… gioia di ridere… gioia d’esser nata… d’aver scordato la notte ed il morso dei ghiacci». Cognetti si unisce: «È una gioia anche per me poter leggere Acqua alpina».
Scatti e versi di bellezza
Tra le montagne Antonia Pozzi si riscopre, ama con ardore, immortala nei suoi scatti quanta più bellezza possibile. E soprattutto scrive. Scrive poesie. Non a caso sarà a un montanaro, il trentino Tullio Gadenz l’«oste-poeta», che Antonia aprirà le stanze del suo lavoro. «Perché non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia… per un’adesione innata, irrevocabile, del più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del sangue». Ma quando seguirà il crudele consiglio di «scrivere il meno possibile», soprattutto versi (come se la poesia fosse il sintomo di un male da scacciare, «un brutto segno») si ammalerà davvero. E anche il maschilismo delle parole pronunciate in un’aula universitaria «Quando sarà veramente una donna, serena, forte, potrà dire delle cose buone» farà il resto. Allora comincia a vedere gli angeli, a parlare di cimiteri e di tombe. A sentirsi in un destino. E prendere quelle pillole che le daranno la morte.
«Ho visto un pezzo di prato libero che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone della Grigna e vi piantassero ogni anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna». La giovane Antonia Pozzi fu sepolta a Pasturo, come desiderava, tra le sue «mamme montagne». Non aveva pubblicato una sola poesia in vita. «Lei che ha deciso di andarsene per prima è quella che resisterà alla polvere del tempo» così Cognetti nei titoli di coda. E aggiunge: «Mi piacerebbe poter tornare indietro e dirglielo all’Antonia, la ragazza dalle lunghe gambe nervose».
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