Provano a tenersi in piedi come possono i protagonisti di “La città e la casa”, romanzo epistolare di Natalia Ginzburg. Li incontriamo giovani e li lasciamo adulti, inselvatichiti dalla vita, alle prese con tante perdite, bambini mai cresciuti veramente. Ginzburg li fa camminare a tentoni nel buio, mentre cercano di indovinare le parole per dar forma alla malinconia, alla morte, alla solitudine
Quante cose sono rimaste impigliate mentre il tempo trascorreva? Quanti amori sfumati, quante vite, quante case distrutte? La storia delle nostre esistenze è la registrazione di un lento disfacimento. Di rapporti che appassiscono prima di perdersi del tutto. Ci si scopre invecchiati d’improvviso, e fa quasi paura pensare a quanti minuti sono scivolati via, tra le dita; fa venire uno strano senso alla gola, come di arsura. Dopo, è un continuo confronto tra l’inizio e la fine, tra chi siamo stati e chi non potremo essere mai più:
Mi ricordavo le passeggiate che facevamo lui e io a Monte Fermo, nei primi tempi che ci conoscevamo. I lunghi passi. I lunghi silenzi, bellissimi, pieni di parole segrete. Le risate improvvise e insulse. Le frasi corte e sconclusionate. I pensieri che si scontravano e s’intrecciavano. I capelli sugli occhi. Quel senso continuo di complicità vittoriosa. Adesso camminavamo distaccati, lui avanti e io indietro.
Le istantanee di un crollo
Natalia Ginzburg scriveva così in un testo del 1984 dal titolo La città e la casa, nel catalogo Einaudi. È un romanzo epistolare – una specie di viaggio nel tempo – che raccoglie, passo dopo passo, le istantanee di un crollo. A parlare, qui, è Lucrezia, uno dei personaggi principali; ha appena capito di essere arrivata a quel punto in cui si è ormai «vecchi e rotti» e prova a riavvolgere il nastro, a capire quando è finito il tempo in cui si parlava ancora al futuro. Le sue lettere sono inventari di abitudini destinate a perdersi, di rapporti che la vita spezzerà in due. Ed è così per tutti i personaggi di questa storia, che incontriamo giovani e lasciamo adulti, inselvatichiti dalla vita. Tra loro c’è chi perde un fratello, un amore; c’è una casa che viene abbandonata e un viaggio improvviso che diventa definitivo. La vita accade, in questo romanzo come nelle nostre micro esistenze: investe Piero, Lucrezia, Giuseppe, Roberta, Ferruccio. Ma nessuno è capace di capirla o di starci dietro. Nessuno sa, in fondo, come si faccia a diventare adulti per davvero:
Parli spesso del tuo desiderio di sentirti protetta. […] In verità non bisognerebbe avere bisogno di protezione, da adulti. Ma forse né tu né io siamo mai diventati adulti, né Piero. Siamo una nidiata di bambini.
Scrivere per mettere ordine
Eppure, a un certo punto si cresce. Si mandano gli inviti di matrimonio, si inizia una convivenza. Arrivano i primi figli, i primi nipoti – ed è un soffio che stanno spegnendo diciotto candeline. In un’altra città un’amica si ammala, poi muore. Compaiono le prime crepe sui muri, i capelli bianchi. Si smette di avere vent’anni, direbbe Fulminacci: «la vita diventa un mestiere» (Una sera). Ma quando avviene lo scatto? Come si fa a non sentirsi profondamente impreparati? I personaggi di La città e la casa di Natalia Ginzburg non lo sanno, e forse è anche per questo che si scrivono continuamente. Le loro lettere sono un modo per mettere ordine nelle propria vita e capirsi. È come se camminassero a tentoni nel buio, cercando di indovinare le parole più giuste per dare forma alla fine di qualcosa, alla malinconia, alla morte, alla solitudine, agli incidenti inaspettati. Non è detto che le trovino, ma chi legge avverte la sensazione di fare parte di un legame, di una rete che prova a tenersi in piedi come può. E quando si arriva alla fine di questo romanzo, quando il brusio di quelle voci che si sono accalcate per duecento pagine si spegne, sembra davvero di aver vissuto una vita intera. Una vita sporca, piena di sbavature, perché gli esseri umani sono così: provano a crescere un figlio senza aver capito ancora come si fa a stare in piedi da soli. E allora è vero quello che diceva Piero, forse siamo tutti «una nidiata di bambini». Ma va bene così. La vita è un mestiere che non ci hanno insegnato e che, forse, non impareremo mai davvero.
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