Vanessa Ambrosecchio sceglie parole dense e precise, nel suo nuovo romanzo “Tutto un rimbalzare di neuroni”, per raccontare la didattica a distanza, dimensione da film distopico del quotidiano che lascia poche possibilità di sopravvivenza a chi è parte del mondo della scuola. Da uno schermo l’insegnante di una terza H si attrezza di empatia, scommette sulle potenzialità dei suoi alunni, ne mantiene le fisionomie emotive. E li incoraggia a credere in se stessi
C’era la scuola di prima e c’è la scuola in Dad, quella imprevedibile e improvvisa forma di istruzione in cui ci siamo ritrovati in tempo di pandemia. Di questo ci racconta Vanessa Ambrosecchio in Tutto un rimbalzare di neuroni (136 pagine, 15 euro), edito da Einaudi. Non che sia facile parlare di qualcosa che ancora stiamo vivendo e che ha visto famiglie, bambini, ragazzi e ragazze, docenti, dirigenti, insomma tutto quel mondo che ruota intorno alla scuola e di cui nessuno, solitamente, si occupa, impegnato in una impresa epocale: la didattica a distanza. Eppure, improvvisamente, una condizione anomala, una dimensione da film distopico ha invaso il nostro quotidiano e ci siamo finiti dentro con pochissime possibilità di sopravvivenza.
Un mondo educativo sconvolto
E sì, perché -Pro! Ma che… c’è? -C’è, ma… -Non si sente… -E non si vede! -Forse non la fa entrare… -O l’ha buttata fuori. E sì, la scuola a cui eravamo abituate e abituati finisce dentro uno schermo che azzera i canali comunicativi consueti, quelli che si avvalgono di sguardi e occhiate, di corpi, di sorrisi e rimproveri, di abiti che cambiano nelle stagioni e che ora sono diventati pigiami e tute. Cambia la lingua, cambiano le parole dentro cui si muovono universi a noi sconosciuti. Cambia lo spazio che diventa un proliferare di piccoli rettangoli. -Mi butta sempre fuori. -E a me non mi fa entrare. -Ma chi? Chi fa questo? -Buh. Il telefono… -Internet… -La linea… -Coso… Skype. E sì, il nostro mondo educativo, perché questo la scuola è innanzitutto, lì dove tutti cresciamo e cambiamo, ne rimane sconvolto e nessuno sa cosa fare.
Volontà, passione e domande
Vanessa Ambrosecchio (nella foto di Rori Palazzo) si spinge su un terreno tanto concreto e quotidiano quanto evocativo e lo fa con la sensibilità d’insegnante attenta ai bisogni, alle sfide necessarie per fare in modo che in ogni piccola dimensione individuale gli alunni, a cui lei tanto si dedica, possano non solo apprendere ma raccogliere indicazioni di valore utili per il futuro. Con punte di ironia, passaggi divertenti, dialoghi serrati che riproducono il parlato dei ragazzi di una scuola media di Palermo, il romanzo ci conduce nel mondo della scuola fatto di volontà e passione, di tentativi, convinzione e sconfitte, un universo umano la cui complessità lascia aperte molte domande. La Dad ci ha spostati in una dimensione in cui lo spazio e il tempo hanno assunto nuovi caratteri e non solo perché le ore di lezione sembravano sbriciolarsi contro le difficoltà tecnologiche ma anche perché abbiamo conosciuto nuove stanchezze di cui poco si capiva. Anche per i prof. è stata dura, chi non si riconosce più, chi rimane disorientato e smarrito nei meandri di meet, link, verifiche online, wireless, connessioni, Mac, iPad, iPhone. Chi sono i colleghi, le colleghe che stanno lì ben diversi da come sarebbero se fossimo fianco a fianco, a parlare nei corridoi? Il tempo scuola, in Dad, non è solo mattutino. Le videolezioni si trascinano dietro uno sciame di messaggi lungo un giorno. E se qualcuno degli alunni non ha la possibilità economica, se a casa non ha la connessione, se non si connette, se la dispersione aumenta, se la disabilità di alcuni si aggrava? Domande su domande, problemi su problemi da risolvere, tempo privato invaso fino a sera tardi. Quel tutto un rimbalzare di neuroni di certo non attiene soltanto alla sfera cognitiva, è un tentare di fare entrare nella didattica quello che può o non può entrarci, quello che deve cambiare e che cambierà, inevitabilmente. E di cui il futuro ancora non può svelare. E sebbene le furberie degli alunni per non collegarsi o non essere visibili, sebbene La mia voce doveva arrivargli da lontano, attraverso metri di profondità, deformata e indecifrabile, dice Ambrosecchio, sebbene c’era come un mare fra noi, e ci teneva distanti, come fa il mare con le isole, dirada, disperde, fa pochi i tanti, e persino la luce fatica a passare… abbiamo conosciuto anche lo spaesamento dei bambini, dei giovani che inaspettatamente dicono: -Era bello andare a scuola, Pro.
Il tempo della sopravvivenza, le falle dell’istituzione
Così, la scuola di prima torna a essere un modello imperfetto ma rimpianto e l’insegnante, voce narrante del romanzo, intreccia al presente i fatti, i progetti, le storie degli alunni, i conflitti, la gioia, la cura. Quell’esserci sempre per chi vorrebbe avere un super potere, come se si potessero salvare alunni e alunne dal loro ambiente laddove questo è deprivato, dalle loro famiglie problematiche, da nuove forme di impoverimento, dagli sbagli che faranno. E la scuola di prima, adesso che non c’è, mostra amplificate le sue difficoltà, inefficienze, perché se una cosa ha mostrato la Dad è che i nostri non sono di certo istituti attrezzati, in cui le risorse abbondano, in cui i locali sono belli, sicuri, sufficienti ad accogliere il numero degli alunni. In Dad abbiamo quindi vissuto un tempo della sopravvivenza che ha mostrato le falle dell’istituzione-scuola, l’incapacità politica e sociale di considerarla parte strutturale dell’edificio umano. Abbiamo conosciuto un dietro le quinte che erano ansie, insicurezze, le nostre vite messe in mostra, che fossero i letti da cui emergevano facce assonnate, scorci di camere e cucine, abbigliamenti, persone di famiglia che seguitavano a passare dietro le spalle. Particolari, questi, che hanno svelato abitudini e squarci di vita che, forse, non avremmo voluto vedere. Vanessa Ambrosecchio sceglie parole dense e precise quando scrive La scuola a distanza è vicinanza delle case, incombenza, trista influenza dei destini. La scuola a distanza è immanenza, permanenza, aderenza, impossibile dimenticanza, quella dimenticanza di sé che fa spazio all’immaginazione, che è illusione a volte e a volte opportunità. Così ho smesso di pretendere e rimproverare. E ho smesso di fare grammatica. Inventarsi, quindi, una scuola nuova, credere comunque e fermamente nel valore che l’istruzione, intesa in senso ampio, ha nella crescita della persona. Un misurarsi con i social e il loro strapotere, con il telefonino prolungamento del corpo, delle risposte immediate che i messaggi in chat pretendono. Era la tempestività di chi vive guancia a guancia col telefono, ci mangia, ci beve, ci va a letto, ci vive dentro, non vive senza, la tempestività di chi comunica costantemente e solamente così… Dare riscontro è il primo comandamento del decalogo social.
Dentro lo spazio e il tempo in remoto l’insegnante legge, attinge ai progetti che hanno funzionato, si attrezza di empatia, scommette sulle qualità e sulle potenzialità dei suoi alunni, ne mantiene le fisionomie emotive. Li chiama per nome, uno per uno, accompagna la sua 3H fino agli esami. E li incoraggia, ancora una volta, a credere in se stessi.
Dopo la scuola di prima e la Dad ci sarà la scuola del dopo. Dovremo accogliere nuove sfide, aprire nuove domande. Sarà una scuola diversa?
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