Torna Orazio Labbate e conclude la sua trilogia con un volume maturo e consapevole, “Spirdu”. Una storia ambientata ancora fra Stati Uniti e Sicilia, protagonisti una detective e un esorcista, in cui anche i personaggi in carne e ossa sono spettri arcani e i morti non hanno smesso di avere un ruolo. Dolori e condanne, tormenti e paure, si intrecciano all’obiettivo principale: la comprensione del male
Di Orazio Labbate apprezzo dagli esordi l’originalità, la ricerca stilistica che è sostanza e non forma, i modelli alti, la solitudine – al di là delle etichette, “gotico siciliano” non mi ha mai convinto, troppo circoscritto, trasuda limiti – in un’Italia che spesso nei libri cerca altro, facile consumo, appetiti da solleticare o sentimenti facili che diventano sentimentalismi. Lo scrittore siciliano, originario della provincia di Caltanissetta, naviga nel mare dell’editoria, con base a Milano, interpretando molteplici ruoli della filiera libraria, ma è da autore che fa la differenza. Lo dimostra il terzo atto della sua trilogia nera, pubblicato nonostante la collana a cui era destinato (diretta da Vanni Santoni per Tunué) abbia chiuso i battenti. Non è stato difficile per Labbate trovare un nuovo approdo: l’ha accolto, in una collana che sbaglia pochissimo, la casa editrice Italo Svevo, che ha pubblicato Spirdu (171 pagine, 16 euro), terzo atto di Labbate, dopo i suoi primi due romanzi Lo Scuru (2014) e Suttaterra (2017). Della trilogia questo appare come il volume più maturo e consapevole, anche se il precedente – dove pure era stemperato l’innesto del dialetto sull’italiano – resta in qualche modo il più poetico, con una splendida rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice.
La vita danza macabra, la lingua coerente
Nei libri di Labbate la vita è una danza macabra, la lingua utilizzata è viva, vivissima, per nulla un optional, anzi ha una sua piena dignità, impastata di un dialetto ricercatissimo, che non è folklore da cartolina, né patina posticcia: questa lingua, ogni volta, si mostra coerentemente per quel che è e per dove sta, lontanissima dall’italiano standard che va per la maggiore; i personaggi di Labbate, anche quelli in carne e ossa, sono spettri arcani, i morti non hanno smesso di dire e fare cose importanti, di avere un ruolo. Il risultato, con numi tutelari come Vollmann e Ligotti, è un libro che fa storia a sé, con la Sicilia più nera, abissale ed esoterica, di tormenti e paure, come crocevia di due anime sole, che lì si ritrovano, per comprendere il male, cercare origini, e intravedere padri, o figure paterne.
Si taliàrunu nel delirio dell’attesa di parràri. Accumuli di orrori tuttu dui. Orge culinarie di due opposte formule divine.
I due attori principali sono Kathrine Pancamo, detective motociclista che, in West Virginia, è alle prese con un serial killer che uccide e scuoia i cadaveri, e Jedediah Faluci, esorcista che a Butera – inizio e fine dei romanzi di Labbate, lì è cresciuto prima di trasferirsi a Milano – fa i conti con contadini indemoniati. Attorno a questi due vertici brulicano tantissimi ambigui personaggi italo-americani da una parte all’altra dell’oceano, e si intravvedono anche i protagonisti dei primi due episodi della trilogia di Labbate: Razziddu Buscemi, predicatore di Milton (in West Virginia) e suo figlio Giuseppe, di professione becchino.
Arrivo e ripartenza
Horror filosofico di rara bellezza in cui vita e morte duellano, come pure il bene e il male, Spirdu rappresenta, probabilmente, per Labbate un punto di arrivo e di ripartenza. Starà a lui, devotamente votato alla letteratura, proseguire la sua ricerca, con le sue immagini potenti e la sua lingua che non assomiglia a quella di nessuno. Incuriosisce la parabola che imboccherà, sul solco già tracciato o su strade inedite, ancora non battute. Labbate è certamente un erede della migliore tradizione siciliana e di quella novecentesca del fantastico italiano, ed è contaminato da nuovi linguaggi, anche non letterari (videogiochi e fumetti), con lo sguardo orientato verso certa America: come Sciascia e Bufalino guardavano in modo diametralmente opposto alla Francia (lo scrittore di Racalmuto aveva come riferimenti Stendhal, Diderot e Voltaire, quello di Comiso Baudelaire, Proust e Giraudoux), Labbate scruta con ammirazione a, oltre ai già citati Ligotti e Vollmann, King, Ellroy, Ellis, Flannery O’ Connor. Queste sono le letture incarnate nella sua scrittura (niente paragoni, ovviamente, con tutte queste leggende), che si muovono sapientemente nell’oscurità, e diventano allucinazioni, scene horror, fantasmi, in una Sicilia di buio e fuoco, di condanne e dolori, di ruggini.
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