Una sfilata di vinti, ma non alla maniera dei neorealisti, ne “I superflui”, capolavoro dimenticato di Dante Arfelli, che dopo il successo scelse un silenzio di più decenni, anche per motivi di salute. Un romanzo che dovrebbe ridisegnare in parte storia e geografia della letteratura italiana. Il trasferimento di un provinciale a Roma al centro della scena, e le sue sconfitte, fra un amore controverso e un generale spaesamento, tra il fatalismo e l’insensatezza di ogni cosa
Un provinciale a Roma, fagocitato e respinto da luoghi e persone della capitale (sebbene c’è chi dica: «Non aver paura, questa città è una gran mucca e c’è latte per tutti»), circondato da tanti vinti, come lui. Una storia premiata, venduta, molto diffusa in Italia, ancor più negli Stati Uniti, ma in un cono d’ombra da troppo tempo. Rispolverata periodicamente da editori di buona volontà, che in parte riscattano la maggior parte della categoria, impegnata a inseguire scrittori futili e opere volatili, magari baciate dalle vendite a breve termine, e nulla più. Il nome di Dante Arfelli non scatena entusiasmi, ricordi o sensazioni forti (se non, forse, nella natia Romagna) e accende poco nella mente anche di grandi lettori. Eppure Dante Arfelli, poco prolifico, a lungo appartato, e alle prese con nevrosi e ossessioni, è uno scrittore di primo piano del Novecento italiano, storia e geografia del nostro patrimonio letterario, se non sono moliti, dovrebbero riposizionarlo con qualche onore. Anche se la riabilitazione sul piano artistico non potrà riscattare i problemi di salute e quelli d’indigenza della seconda metà dell’esistenza di Dante Arfelli, che negli ultimi anni (alle prese anche col Parkinson) sopravvisse grazie al vitalizio della legge Bacchelli.
Un bestseller e un silenzio contro i compromessi
Nonostante un titolo di successo e un riscontro fragoroso oltreoceano, Dante Arfelli in parte decise e in parte fu costretto a dire addio alle velleità editoriali, rifiutando anche i precari equilibri e i compromessi dell’universo letterario. Già a metà anni Cinquanta si eclissò in preda a nevrosi e forme di depressione, da cui sarebbe in parte riemerso solo sul finale dell’esistenza, quando riprese a pubblicare, dopo decenni di silenzio. La ricorrenza dei cento anni della sua nascita l’ha riportato in auge e in libreria grazie alla collana Le Polveri (che rilancia anche Zebio Còtal di Guido Cavani e Vento Caldo di Ugo Moretti) della casa editrice readerforblind, nata come rivista: I superflui (313 pagine, 17 euro), questo il titolo del suo incredibile debutto, torna in un’edizione elegante e curata, con copertina blu notte e prefazione esaustiva di Gabriele Sabatini. Il suo romanzo più famoso, scritto in qualche settimana insonne, era l’opera di un esordiente ventottenne, appassionato di letteratura americana, valorizzata dal premio Venezia (che in Laguna sarebbe diventato Campiello) e con la pubblicazione per Rizzoli. Da allora agli anni Novanta, però, l’autore pubblicherà pochi titoli, un romanzo, un pugno di racconti, un volume autobiografico e piccoli libri postumi, lucine in mezzo a tanto buio.
Il vuoto esistenziale oltre l’inettitudine
Pur coevo dei più noti e sponsorizzati neorealisti, Dante Arfelli era molto diverso da loro, concettualmente e stilisticamente. Una distanza che l’autore romagnolo avrebbe pagato in termini di invidie e sgambetti. Ma sulla quale non arretrò, a costo di un lunghissimo silenzio editoriale. Il dopoguerra italiano che inquadra nella sua opera principale parla chiaro, non è quello del neorealismo più ideologico. Non si assiste all’energia e all’entusiasmo della ricostruzione, alla generale ripartenza, ma semmai a uno spaesamento evidente, a un vuoto esistenziale poco rassicurante; dubbi e indecisioni costellano la maggior parte di figure che, a cominciare dal protagonista Luca, affollano le pagine de I superflui. Forse solo Lidia (magnifico personaggio femminile, prostituta che abborda Luca al suo arrivo alla stazione Termini) ha un obiettivo concreto, sogna di trasferirsi in Argentina (tanto da studiare lo spagnolo) per cambiar vita e raggiungere una zia. Per il resto l’ineluttabilità del destino pende sulle teste di ogni antieroe di Dante Arfelli, varie sfaccettature d’inettitudine, anime alla deriva dopo la guerra, non c’è riscatto, non c’è emancipazione, non c’è forza alcuna capace di dare una sterzata alla situazione di partenza, si è sconfitti e ognuno è «merce da poco», in un generale quadro di ingiustizia sociale.
Il vuoto, il precariato, l’incomunicabilità
Il senso di esclusione e vuoto, di Luca innanzitutto, è amplificato in una realtà come quella romana, dove dominano faccendieri, grigi notabili, animatori di salotti, poteri forti di curia e di palazzo, luoghi e dinamiche contro cui poco possono le lettere di raccomandazione di due “personalità” del suo paese, il segretario della locale sezione socialista e il prete. Occasioni sconnesse e mancate, promesse non mantenute, imprevisti, incontri vani (e anche umilianti) col potente di turno, occupazioni precarie, una costante incomunicabilità. Si sussegue così il tempo per Luca, che ha pochi punti di riferimento, a cominciare dall’amore controverso, d’attrazione e repulsione, e non privo di imprevisti, che vivrà con Lidia, per proseguire con Alberto, studente universitario che frequenta salotti di alto rango, con Luigi, un taciturno e incosciente anarchico dal tragico destino, con il sacerdote Don Aldo e con una nobildonna, Ester. Tutti fuori posto. I loro sogni naufragano, la vita e il mondo sono spietati nei loro confronti, l’insensatezza di ogni cosa e un pessimismo fatalista hanno il sopravvento su tutto. Deve averlo pensato a lungo e vissuto sulla propria pelle anche Dante Arfelli, certamente sconfitto, ma i cui libri ci fanno bene, possono servirci ancora oggi, uno scrittore tutt’altro che superfluo.
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