A centosei anni dalla nascita un ricordo del premio Nobel Saul Bellow, attraverso uno dei suoi romanzi più noti, “Il dono di Humboldt”, capolavoro di cerebralismo monologante e ironia corrosiva sull’universo letterario, sull’amicizia, sulla bellezza e sul denaro
Il dono che ci lasciano gli scrittori sono le loro opere, che nel caso di capolavori rimangono negli anni e vanno a nutrire le anime delle future generazioni. Del dono della poesia (per esteso della letteratura) parlava Nabokov nel suo romanzo omonimo Il Dono (Adelphi) facendo riferimento a quella «sacra organizzazione o confraternita in cui una dozzina di vati senza talento, uniti in un unico afflato, venerano il Dono della Poesia».
Un patto di sangue incrinato
Il Dono di Humboldt (601 pagine, 15 euro), romanzo del 1975 di Saul Bellow (nato il 10 giugno del 1915, esattamente centosei anni fa) che varrà all’autore di origine ebraiche trapiantato in Canada e successivamente nella vicina Chicago il Premio Pulitzer di quell’anno, e che lo consacrerà definitivamente tanto da fargli meritare il Premio Nobel dell’anno successivo, narra il rapporto tra due letterati, due dei memorabili antieroi dei suoi romanzi, tipicamente incapaci di realizzare i propri progetti e desideri, in questo caso Charlie Citrine e Humboldt Fleisher, dei quali vengono scandagliate le vite e le reciproche ascese, declini e cadute.
Humboldt Fleisher, il cui nome ricorda quantomeno foneticamente l’Humbert di Lolita, il capolavoro dello stesso Nabokov (chissà se un semplice caso), è un promettente poeta di origine ebraica nell’America del secolo scorso, il quale negli anni Trenta assaggerà un illusorio quanto breve successo con un libro di ballate. Un giovane Charlie Citrine dal Wisconsin si trasferisce a New York vendendo spazzole porta a porta sulle tracce del suo mentore, per ammirare e attingere dal suo modello letterario, Humboldt Fleisher. I due stipuleranno un patto di sangue che consisterà nello scambiarsi due assegni in bianco sulle reciproche opere e le loro auspicate fortune. Citrine avrà successo e soldi con una commedia a Broadway (lo stesso Bellow ha scritto alcune commedie dalle alterne fortune per Broadway) e successivamente scrivendo libri a sfondo storico e biografie, scatenando gli strali di Fleisher che nei suoi deliri lo accuserà di aver tratto da lui lo spunto per la sua opera. La loro è un‘amicizia minata dalla pazzia e paranoia di Humboldt che accusa il vecchio amico di aver plagiato un suo soggetto e la sua stessa personalità per la sua di Citrine commedia di successo, facendosi beffe dei riconoscimenti ricevuti dal suo ex amico:
Il Pultizer non conta, è roba buona solo per i polli. È un premio fasullo, pubblicità per i giornali, conferito da una giuria di analfabeti e farabutti.
Una meditazione sulla morte
Il racconto di Citrine segue un andamento retrospettivo, sulla sua vita e sul suo rapporto con Humboldt, quando questo è già morto per un infarto, con lo sguardo di un sessantenne (Citrine), premiato con due Pulitzer, eppure irrisolto, irrealizzato e che si ritrova con i suoi cerebralismi a riflettere sulla sua esistenza, sul milieu intellettuale dell’America del secondo dopoguerra del quale ha fatto parte e sui problemi della morte. Perché Il Dono di Humboldt (pubblicato negli Oscar Mondadori) è anche una meditazione sulla morte, come dalle parole dello stesso autore che lo definirà «Un romanzo comico sulla morte”, infatti uno degli snodi del romanzo è costituito dal lascito testamentario che Humboldt, accantonando l’odio e i propositi di rivalsa, destinerà al suo ex amico Citrine e alla moglie di Humboldt, Kathleen, anch’essa vittima della sua personalità maniaco-depressiva, debordante, disturbata e accecata dalla gelosia, tutte cose che lo porteranno nel corso della sua vita a entrare e uscire dal manicomio. Il testamento di Humboldt consiste nella sceneggiatura di un improbabile film che crederà di gran successo. Citrine farà valere questo dono ricevuto per dare con i proventi del film una degna sepoltura accanto alla madre al vecchio e reietto amico. Un po’ come l’Antigone sofoclea che vuole dare sepoltura al fratello Polinice, infatti anche Il Dono di Humboldt termina con una sepoltura.
Ma il romanzo di Bellow è molto altro e come in ogni opera letteraria è lo stile che ne determina il valore e la permanenza. Anche ne Il Dono di Humboldt, come in molte altre opere del Premio Nobel del 1976 questo è il tratto caratterizzante; il lungo monologare di Citrine e la variegata carrellata di personaggi da lui incontrati, il percorso a ostacoli di un intellettuale il quale aggirando le illusorie promesse della bellezza e del denaro riesce a giungere in ogni caso a una nuova consapevolezza interrogandosi sulla sua stessa occupazione e domandandosi se non sia rimasto, come il Rip Van Winkle che vede rappresentato alla recita di Natale delle figlie, addormentato dagli gnomi per vent’anni.
Il cinico ed esilarante mondo editoriale
L’ironia corrosiva e una comicità in alcuni tratti dirompente sono la materia di questa scrittura ricca di digressioni e flussi di coscienza che ci accompagna come in labirinto nello scoprire la vita dei due protagonisti e il mondo culturale, editoriale e accademico, con le sue insidie, gli inganni, le invidie e i talora esilaranti retroscena, testimonianza di uno spirito tipicamente americano votato spesso al cinismo e alla spregiudicatezza, come si confà al mondo degli affari.
«Era questo il Romanticismo degli affari? Ebbene non era altro che aggressività, prontezza, sfacciataggine» si domanda Citrine aggiungendo:
L’America è un duro banco di prova per lo spirito umano. Non mi stupirebbe se facesse arretrare tutti quanti
Questa è la dura vita del poeta in una società, quella americana, affaristica e tecnologica, un paese che «va fiero dei suoi poeti morti» che «trova una tremenda soddisfazione nella testimonianza che essi rendono, dimostrando come gli Stati Uniti siano duri, grandi eccessivi e spietati, come la realtà americana sia davvero soverchiante. E il mestiere di poeta sia roba da studenti, da femmine, da preti» giustificando così il fatto che «quindi i poeti sono amati, ma solo perché non sanno stare al mondo».
Humboldt dice a Citrine: «Ce l’avevo con te, te lo giuro, perché tu eri convinto che io sarei diventato il maggior poeta americano del secolo. Tu sei venuto apposta dal Wisconsin, per dirmelo. E invece non era vero! Quanta gente era in attesa di quel poeta! A cosa serve la poesia?»
La letteratura è insomma cooptata dallo spirito del commercio: “Insomma la smettessi di fare l’artigiano all’antica e adottassi i metodi dell’industria manifatturiera priva di anima” dice ancora Citrine a se stesso parafrasando Ruskin.
I meccanismi, le dinamiche del mondo culturale e accademico e dei suoi salotti e intrallazzatori a vario titolo sono scandagliati con ironia graffiante e con una scrittura brillante e allo stesso tempo disincantata che mette in scena un’ampia carrellata di personaggi minori che accompagnano Charlie Citrine durante il suo percorso letterario e esistenziale.
Il dono effimero del successo
Nei lunghi flussi di coscienza di Citrine all’interno del romanzo fluviale che è Il Dono di Humboldt, caratteristica stilistico-formale testimoniata dalla mancata divisione in capitoli, si possono così trovare smisurate e analitiche parentesi sui più disparati argomenti, dall’antroposofia di Rudolf Steiner a pregnanti digressioni filosofiche, da attente disamine socio-politiche sulla società occidentale e sul capitalismo fino a ricchi approfondimenti strettamente letterari, specchio della grande statura dell’autore che parla per voce dell’anima tormentata che è Charlie Citrine, la cui vita si interseca con quella di Humboldt, durante tutte le seicento pagine del romanzo, a partire da quando il primo, ormai votato al successo, vedrà il suo vecchio amico e ispiratore ai bordi di un marciapiede ridotto come un clochard, poco prima della sua morte. Ma il successo anche per Citrine è un dono effimero, infatti si troverà trascinato nelle più grottesche e esasperanti pastoie della vita che ne mineranno la tenuta: a seguito di una partita a poker si trova a essere perseguitato da un gangster di Chicago, uno di quei personaggi minori e indimenticabili dei romanzi di Bellow, anche solo per il nome: Rinaldo Cantabile lo ricatterà e lo tallonerà da vicino cercando di spillare al malcapitato intellettuale soldi e linfa vitale, in un modo che è anche un tentativo di riscattare la propria posizione con un innalzamento spirituale, facendo leva sullo scrittore di successo. Gli effetti comici derivano dal contrasto tra la presunta torre d’avorio dell’intellettuale e l’immersione nei bassifondi e in un losco mondo tramite il quale in ogni caso Cantabile pare voglia fornire a Citrine un’ancora di salvezza. Citrine si trova infatti coinvolto in una causa di divorzio che rischia di lasciarlo sul lastrico e che grazie alla penna di Bellow diviene anche una resa dei conti esistenziale e metafisico-letteraria, farà un viaggio in Texas dal fratello ammalato che gli propone una delle sue strampalate attività imprenditoriali per risollevarlo, si ritroverà a Madrid dove deve scrivere una guida culturale d’Europa ad accudire il bambino della sua adorata e formosa compagna Renata che lo ha abbandonato per un impresario di pompe funebri.
Come Roth
Citrine che ricorda il Moses E. Herzog di quello che è ritenuto il capolavoro di Bellow e certamente più noto dei suoi romanzi: Herzog, la stessa Renata del romanzo del 1975 che ricorda un po’ la Ramona di Herzog. Sì perché anche le contrastate storie sentimentali si affacciano nei romanzi di Bellow, con l’inevitabile correlato del sesso che le accompagnano, come se fossimo in un romanzo di Philip Roth. Da Herzog in avanti anche nell’immaginario letterario di Bellow fa la comparsa il sesso a sollecitare la vanità umana dei protagonisti dei suoi romanzi, spesso con esiti grotteschi come in Il Dono di Humboldt quando Renata raggiunge un orgasmo provocando Citrine durante un pranzo d’affari dirigendo il piede di Citrine da sotto il tavolo verso il suo centro del piacere o quando con la stessa Renata si trova in una camera d’albergo al loro primo incontro e lei sviene. Con Philip Roth, del resto Bellow ha condiviso una sincera amicizia: due grandi scrittori americani di origine ebraica del secolo scorso e due grandi amici, perché lo erano veramente. In alcuni casi si ha quasi l’impressione che proprio per effetto di questa loro amicizia alcuni romanzi li abbia potuti scrivere l’uno per l’altro, prendendo a prestito, o solo traendone ispirazione, proprio come Fleisher accuserà essere avvenuto con Citrine.
In Il Dono di Humboldt, come in molte altre opere di Bellow troviamo i tratti caratteristici di una comicità tutta ebraica, l’autobiografismo e lo stesso interrogarsi sulla liceità e contemporanea rivendicazione dell’autore sulla sua identità di scrittore di origine ebraica nell’ambiente WASP e harvardiano nella metà del secolo scorso nel quale Bellow si è trovato a muovere i primi passi letterari, tanto da fargli dire all’inizio di Le Avventure di Augie March: «Sono ebreo, figlio di immigrati”. Ne Il Dono di Humboldt l’azione che in altri romanzi è presente, si pensi appunto al vitalismo e alle atmosfere picaresche di Le Avventure di Augie March, è subordinata a un cerebralismo monologante, come in Herzog, a tratti esasperato ma che non prescinde dal sollevare le fondamentali domande sui grandi perché della vita, sul significato di essere al mondo e le ragioni del proprio essere, divenendo allo stesso tempo la cronaca di una resa e lo scintillare luminosissimo di una gloriosa, indimenticabile sconfitta, insomma non solo un “romanzo comico sulla morte”, nel quale si ride, si piange e si medita, ma un vero capolavoro.
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Ottimo esercizio di ermeneutica, risultati estetici come codesti son possibili soltanto se al talento viene sommata la disciplina dell’atto dello scrivere come necessità, direi del nulla dies sine linea
gino rago