Non è solo un formidabile romanziere Mathias Enard, ma un poeta capace sempre di una metafora inedita, con un’analogia inusitata, un’allegoria improbabile. Nel poemetto “Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona”, tra polvere e sangue, cibo e alcol, mette in scena un lungo ritorno a Itaca – nel suo caso Barcellona – tra molte sirene e Polifemi ma senza dèi, Penelopi o Telemachi. Una sola la stella polare: l’amore umano
Leggere questa raccolta poetica di Mathias Enard, Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona (261 pagine, 18 euro), pubblicato dalle edizioni e/o, è stata una fatica. Se ne esce spossati, come aver percorso tutti i luoghi e le situazioni che questa disarmante geografia dello spirito ci presenta. Se ne esce stanchi, e sporchi di polvere e sangue, di fango e neve, di ruggine e salsedine; se ne esce con la bocca impastata con mille sapori contrastanti tra spezie e agrumi, falafel e aringhe, zafferano e melograni. E sicuramente ubriachi: chi avrà avuto lo stomaco per resistere alla vodka, alla grappa, alla rakajia di Sarajevo, si lascerà andare infine alla dolcezza inebriante dei vini di Lisbona – penultima tappa dell’autore – che egli mescia e ci porge come un coppiere che vuole invitarci alla dimenticanza. Della guerra, innanzitutto, dove «la poesia è una scatoletta di sardine nell’ora dell’assedio».
Beirut (e le città dallo stesso martirio)
Il libro comincia tra un caffè e l’altro, in un mattino di Pasqua a Beirut, città «dal gusto di timo e copertoni bruciati». In questo straziante poemetto Beirut diventa un simbolo, il luogo della compresenza di tutte le città da lui visitate e che hanno subìto lo stesso martirio.
Beirut diventava un’epopea gustativa
al risveglio si sudava pastirma
da tutti i pori puzza di suciuk
lo so esagero
Beirut era smisurata
politicamente smisurata
nel rombo degli aerei d’Israele
scoprivamo tutti i giorni una nuova autostrada
ballavamo (…)
La guerra era lontana
la guerra era vicinissima
come la pioggia
la Resistenza raccoglieva i suoi cadaveri
Israele bombardava/ bombardava/ bombardava
e striava il cielo di urla
sirene senza canto
silenzi di case distrutte
e lacrime (…)
La guerra e il tumulto degli innamorati fra le macerie
E dalle cronache odierne sappiamo che nulla è cambiato: Beirut come Damasco, racconta Enard, Beirut come Gaza, aggiungo io. Ma l’autore non veste i retorici panni dell’inviato di guerra in versi, e non è nemmeno come alcuni leggendari poeti-guerrieri della tradizione mediorientale; piuttosto, egli mi ricorda Attilio, protagonista dello splendido film di Benigni La tigre e la neve, disposto ad inseguire l’amata fin dentro il conflitto iracheno. Similmente, ma con più disincanto, egli sfrutta come un artificio l’inseguimento amoroso tra le rovinose strade di Beirut per raccontare quasi en passant il disastro bellico con cui convive la città, che ormai conserva poco di quel fascino simil-parigino tipico di molti capoluoghi del Vicino Oriente. Con grande maestria, Enard unisce la guerra e l’occasione amorosa per due giovani: “…quando il fuoco si abbatteva sulla città/ e l’apocalisse sui nostri cuori adolescenti: / tu mi prendevi la mano di nascosto/ per rassicurarmi/ sapevi che avevo paura…”. Le due paure diventano un solo conflitto nel cuore degli amanti. E anche la pioggia di razzi portatrice di distruzione, diventa una stridente metafora del tumulto degli innamorati, e dunque di speranza. La poesia così ha compiuto il suo miracolo, ma in quel mattino di Pasqua, per Beirut, nessuna resurrezione è in vista. Solo due angeli, che si amano e s’inseguono tra le macerie, recano l’annunzio.
Plurilinguismo e capacità evocativa
Il commovente racconto poetico di Beirut, di cui l’autore riporta ogni sapore e contraddizione, è solo un lungo (20 pagine!) proemio del suo itinerario. Prima dare qualche cenno sul seguito, spendiamo qualche parola sulla lingua. E voglio farlo intonando una lode per i due traduttori, Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta: tutta la mia umana comprensione per l’impresa omerica a cui vi ha costretto l’autore! Il plurilinguismo infatti è nel DNA di Enard, di cui nemmeno enumeriamo le lingue che maneggia, ma tra tutte segnaliamo l’arabo, presente anche in alcune note poetiche a margine del testo. E anche il suo francese si presenta spesso commisto alle altre. Non sempre, solo quando lo ritiene opportuno per una questione di pregnanza, o perché necessario nel richiamare termini e nomi dei posti descritti, o per volontà di dissimulare significati – ermetismo linguistico forse, mai arroganza o spavalderia. Tutto appare costruito delicatamente, parole su parole molto diverse tra loro ma poggiate con estrema cura. Anche quando il significato immediato sfugge, rimani saldamente dentro al brano in virtù della capacità evocativa delle strofe e delle loro giustapposizioni. Il brano esemplare di tutto ciò è Día (p.207). Se la terzina finale fosse rivolta a noi, parrebbe di leggere la motivazione delle sue scelte linguistiche: “Ecco la mia promessa/ ti offro tutto il mio essere di verbo e sogno,/ i colori più potenti del mio blasone”.
Solitudine senza speranza
Man mano che si entra dentro il testo, il contesto di guerra scompare gradualmente, ma rimane come uno sfondo opaco ove si stagliano le sillogi poetiche successive. Tra le schegge di Polonia, «il vuoto, l’assenza e il freddo» trasformano l’anima in un permafrost. Solo l’amore, come l’alcool, è in grado di riscaldarci. E così, «beviamo senza sapere chi beviamo». Ma a volte non basta, e un silenzio troppo profondo ci turba e crolliamo come palazzi in rovina:
Ognuno è solo e ognuno esita
a prendere atto della propria solitudine,
ad allontanarsi
ma trema al pensiero che crolli così
l’edificio del niente.
Il siciliano Quasimodo poteva, almeno per un attimo, sentirsi trafitto da un raggio di sole, ma nelle pianure polacche o russe non può esistere nemmeno quel barlume di speranza. La «pratica del silenzio» a cui ti costringe l’indefinita pianura del Nord, cromaticamente variante dal bianco al grigio, è comunque un momento salutare in cui ci si purifica dai frastuoni bellici dei Balcani o del medio Oriente. L’autore entra in una fase altamente introspettiva: «l’impossibilità di essere altro da sé» condanna lui e la sua poesia alla «reclusione dell’insetto nel fiore amato dove le ali sono soltanto un rumoroso fastidio» (p.139). Non c’è occasione di poesia attorno a lui; «tutto fuori è troppo fragile come questa steppa invisibile». Gli resta un tempo lunghissimo da conquistare, ed un fiume di nostalgici ricordi da riordinare, ove «tutto è oggetto di me»: vediamo forse qui qualcosa di quel Proust che Enard scomoda nel titolo come specchietto per le allodole-lettori.
Toccare con un dito l’Anima del mondo
La steppa è certamente la topografia della sua anima scorrendo la parte centrale di questo libro. Egli è Materia della steppa, come l’emblematico brano di pagina 85 che funge da overture della seconda sezione: «Da Biarritz a Bayonne e da Hendaye a San Sebastián nella nebbia, dalla Bidasoa all’Ebro,/ dalla sorgente del fiume fino alle Porte di Ferro, dallo scorrere puro della barca al Mar Nero…/ dall’Hindu Kush alla Qadisha passando per le cime terrose degli Elburz e i pini della Sarella…», passando tra santoni e profeti, anelli e bastoni magici, icone d’orate e tesori con un «treno che fende il mondo creandolo sempre», tra accenti, sillabe e fonemi «che girano come specchi tra i rami dei ciliegi e compongono messaggi per i corvi»; e dilatandosi, senza fine, “da ciò che viene a ciò che verrà, da colei che viene a colei che verrà,/ da ciò che vi sopraffà nel respiro/ da ciò che resta a ciò che se ne va”. Questo grande itinerario geospirituale termina nel massiccio del Pamir, tra il persiano parlato dai Tigiki, sciabole ricurve e mendicanti ciechi. Da qui, egli si congeda dicendo a sé stesso:
rannìchiati nel tuo cappotto
avvolgiti di un infinito viaggio
affida alle stelle la cura dei bagagli
parti e dimentica il Pamir
sii saggio
ti inseguirà di incensoti accompagnerà di mirra.
Sulle alture asiatiche è come se Enard abbia toccato con un dito l’Anima del Mondo, e adesso sia pronto per ripartire. Anzi, a ritornare a casa, come vedremo: adesso che lo dico mi rendo conto che si tratta di una specie di Odissea con molte sirene e Polifemi ma senza dèi, Penelopi o Telemachi…Comunque, nonostante il lungo cammino di mappe e preghiere, la stella polare anche nelle notti più fredde era chiara, ed rimasta tale: l’amore umano. Perché “il viaggiatore non conosce il viaggio/ più dell’amante/ le labbra dell’amata” (p.67).
Mediterraneo e simpatiche canaglie diseredate
Dopo il Pamir, eccoci nella terza ed ultima sezione, che porta il titolo del libro e dell’ultima lirica. Enard ci teletrasporta in luoghi a noi più consueti, e il cammino riprende da Albaìcin, noto quartiere arabo di Granada. Il calore del Mediterraneo si percepisce subito, soprattutto a livello linguistico e sintattico: adesso al francese si fondono il portoghese lo spagnolo e il catalano. La tristezza tematica dei primi brani sembra più saudade, e già si percepisce l’odore del mare, lì dietro l’angolo della pagina. Gli strumenti poetici scelti nella composizione delle strofe si fa più…novecentesca. E appena mette piede a Barcellona, scelta dall’autore per essere la sua Itaca, ecco improvvisamente comparire un altro Enard, che tira fuori una sfilza di ballate che richiamano direttamente la tradizione francese di Brassens e Cohen, o del nostro Fabrizio de Andrè. I protagonisti del lungomare di Barceloneta e dei vicoli adiacenti, sono sempre gli stessi: vecchi, ubriachi, ladri, drogati, puttane, briganti papponi cornuti e lacchè…(verso non suo, ovviamente…). Insomma, tutto quel gruppo di simpatiche canaglie diseredate a cui il genere si è dedicato con grande passione e umanità. Ma anche tra queste miserie, regge “il dolce lume del tuo sguardo,/ questa lampada lanterna marina,/ che manderà diritto in rovina/ il mio atono battello da ladro/ la parusia degli sconforti/ la cupa accidia dell’impossibile…” (p.229). Enard è sempre in grado di colpire il lettore con una metafora inedita, con un’analogia inusitata, un’allegoria improbabile (mi è rimasta in testa a lungo lo stupore nebulizzato…). Dopo il passaggio a Lisbona e una sbronza con Pessoa, eccoci all’Ultimo discorso. Si passa in rassegna un’ultima serie di città: Tangeri, Parigi, Montevideo, Beirut (ancora), Combray…si fa l’appello degli amici dello spirito, poeti a lui vicini come se lo fossero: Proust, Onetti, Kavafis, Heine…tutti vicini attorno all’unico grande capezzale dell’umanità. Siamo tutti come dei libri che, nella migliore delle ipotesi, hanno scritto la propria storia, ma comunque destinati a bruciare, a tornare cenere: «aspettiamo la benzina e la scintilla/ arriveranno/ adéu amics/ viene la notte in cui non si può più dipingere/ viene il giorno che non torna a levarsi».
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