Un ritratto affettuoso, parziale, ma non ciecamente allineato alle posizioni (talvolta irrazionali) di Philip Roth. È “Siamo ancora qui”, il memoir di Benjamin Taylor sul fraterno amico Philip. Pagine di incandescente sincerità, piene di aneddoti e riflessioni, e che vanno al nocciolo dell’arte del geniale scrittore di Newark
Uno scrittore rimasto nella trappola della fama a trentasei anni. Il bravo ragazzo ebreo tradito dall’anarchia interiore. Un analfabeta filosofico («Quello che mi interessa sono gli individui intrappolati in situazioni particolari. La generalizzazione filosofica mi è completamente estranea»). Un impenitente non addomesticabile scapolo per cui la monogamia era un anatema, ma che al contempo era preoccupato di ciò che la gente diceva di lui («sopportare lo scandalo di essere un poligamo»). Un bimbo dall’infanzia serena e gioiosa, «che aveva vinto l’inafferrabile premio della concordia familiare. Lo spettro emotivo andava dalla contentezza alla felicità estrema». Un uomo e uno scrittore contro bigotti, sciovinisti, xenofobi, un patriota dal cuore spezzato, contro ogni discriminazione razziale. Un quasi ottuagenario che aveva abdicato sessualmente e che considerava questo passaggio «il presagio della notte». Sono definizioni di Philip Roth dello stesso scrittore o del fraterno amico Benjamin Taylor, il cui più recente memoir è un regalo preziosissimo per aprire uno squarcio su uno scrittore geniale. In Siamo ancora qui. La mia amicizia con Philip Roth (106 pagine, 15 euro), pubblicato da Nutrimenti (come il precedente Il clamore a casa nostra) e tradotto da Nicola Mannuppelli, il lettore ha accesso ad aneddoti e pezzi di vita inquadrati con lo sguardo di un amico, intrecciati con opinioni e citazioni di Roth stesso.
Vita e arte
Ebreo, omosessuale, romanziere e saggista più giovane di vent’anni, Taylor è stato un punto di riferimento per Roth a partire dal nuovo millennio, arrivandolo ad assistere negli ultimi tempi, non i soli, di guai fisici. Un’amicizia che ha concesso reciprocamente una presenza privilegiata nelle rispettive vite. E che – in attesa della controversa biografia ufficiale di Blake Bailey, finita al macero negli Usa – ha prodotto pagine, in un certo modo suggerite da Roth, di incandescente sincerità. Taylor riflette sulla vita e sull’arte dell’amico, riferisce di pasti consumati assieme nei peggiori ristoranti di New York, dell’annuale tormento del Nobel mancato, degli eccentrici e spassosi racconti di Roth su parenti immaginari. Rievoca gli ultimi giorni e le ultime ore di vita dell’amico, in un ritratto certamente parziale, ma non ciecamente allineato a certe idiosincrasie o irrazionalità di Roth.
Nemici e pregiudizi
Fra i nemici con cui Roth faceva i conti c’erano «gli avversari del piacere», le ex mogli e i ripetuti interventi chirurgici, soprattutto cardiaci, nel corso della vita. E tanti pregiudizi (che secondo molti oggi tornano post-mortem, ai tempi del MeToo, e che sono arrivati a minacciare la pubblicazione della biografia ufficiale), come le accuse di misoginia. Tramite Taylor (a cui è dedicato Il fantasma esce di scena), Roth assicura: «non ho mai scritto una parola sulle donne in generale. […] Le donne, ognuna nella sua singolarità, compaiono nei miei libri. Ma il genere femminile non c’è da nessuna parte».
Eros e religione
L’eros e l’infedeltà, il sesso e l’amore hanno un peso preponderante in questo libro e, dunque, l’hanno avuto nella vita vera, quella lontana dai libri (e dalla carriera interrotta pubblicamente nel 2012, con l’addio alla scrittura destinata alla pubblicazione, e in qualche modo preannunciata l’anno prima al presidente Barack Obama, che lo premiava con la National Humanities Medal). Roth, nel ricordo di Taylor, era comunque un seduttore sui generis, perché finiva per innamorarsi, liberarsi dalla trappola della monogamia, e innamorarsi ancora. L’animo inquieto e vorace dell’autore de Il teatro di Sabbath è ritratto con ragione e sentimento, il mix di ricordi dosato con eleganza, senza rimestare nel torbido. Sembra quasi di sentire in sottofondo certe grasse risate dell’amico Philip (amico generoso, prodigo di consigli anche per i libri di Taylor, a cui affidò manoscritti, anche inediti), audace nell’ironia e serio come pochi, quando prendeva di petto gli argomenti che gli stavano a cuore. Le religioni per esempio, «il rifugio dei deboli di mente», a cui contrapporre ben altri principi.
La nostra Sion erano gli Stati Uniti. La nostra divinità era Franklin Roosevelt.
Un’immaginazione realistica
Naturalmente non siamo in presenza di un libro di critica letteraria, pur imbattendosi spesso nelle pieghe e nelle genesi dei romanzi rothiani. Entrambe le voci di questo memoir, quella di Taylor e quella di Roth, maneggiano con cura la materia incandescente della narrativa del secondo. L’anziano maestro spiega, chiarisce, puntualizza. L’amico più giovane in pochissime righe, restituisce il senso di una vita e di un’opera di tanti capolavori, paragonabile a pochi:
La prova che un’immaginazione realistica, abbandonandosi agli abissi, in qualche misteriosa maniera riesce a ricomporre i pezzi nel modo giusto.
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