“Lo scialle di Marie Dudon e altri racconti”, ovvero storie brevi che sono palestra delle opere maggiori di Georges Simenon. Esistenze minime (spesso di coppia) e chiaroscuri affollano queste pagine, tra vani sforzi di cambiare il corso delle cose e ironie della sorte, fra impedimenti e desideri inappagati. Simenon indaga le pieghe oscure dell’essere umano, le sue eterne contraddizioni
Millanterie, vigliaccherie, ipocrisie, bugie. E poi una valanga di verità a metà, pensieri taciuti, occasioni perdute. Di solito c’è di mezzo una coppia, un uomo, una donna, e quindi il gran teatro della vita, le pieghe di esistenze minime, tentativi di riscatti sociali andati a vuoto, vani sforzi di cambiare il corso delle cose. Racconti che hanno un’ottantina d’anni e nemmeno un filo di rughe, che in italiano erano ancora in gran parte inediti, pubblicati originariamente sulle pagine di un settimanale, e che invece adesso sono stati tradotti da Marina Di Leo e sono diventati un elegante volumetto tascabile per Adelphi, Lo scialle di Marie Dudon e altri racconti (172 pagine, 12 euro). Da prendere a occhi chiusi, per chi frequenta il vecchio Georges, o vuole solo disintossicarsi da letture banali.
Senza sangue
Il giallo della copertina non inganni. Forse strizza un po’ l’occhio ai lettori di Maigret, ma non siamo in presenza di misteriosi, o tantomeno efferati, delitti da sciogliere. Se qualche piccolo o grande crimine si materializza è sempre senza sangue. Bastano sempre poche frasi a Simenon per scaraventarci nel grigio di certe esistenze marginali, nella mente di una prostituta (Il dito di Barraquier), di una madre di famiglia (nel racconto eponimo, dal finale amaro e implacabile), di un adolescente dai capelli color grano (La ribellione del canarino), di una figlia che assiste la madre (forse) non autosufficiente (Valèrie se ne va), di una coppia di anziani coniugi che attende il ritorno del figlio dall’America (La vecchia coppia di Cherbourg), di una ladra per caso (I centomila franchi della giovane signora). Per tanti altri romanzieri sarebbero comparse, figurerebbero in scena il tempo di snocciolare una o due battute e sarebbero inghiottite dal fluire di eventi vanagloriosi, cervellotici, epici. Nelle pagine di Simenon questi casi particolari, che non hanno necessità o ambizione d’assurgere a casi universali, sprigionano una materia narrativa tutt’altro che tiepida.
Storie in penombra
Vite in penombra, desideri insufficienti (specie riguardo alla “roba”, al denaro), atmosfere che prevalgono su tutto ciò che è esplicito, dettagli minimi (uno scialle o una spilla…) che fanno la differenza, impedimenti e ironie della sorte (si pensi al finale del racconto Il destino del signor Saft). E tutto ciò è impreziosito dalla forma breve del narrare, poche pagine senza scampo per i protagonisti e per chi legge. Figure imprigionate in vite che non cambiano, o che quantomeno non cambiano in meglio, sono quelle schizzate da un “pittore”, Simenon, che non illumina mai la scena e sciorina attori che si muovono furtivi, tra le quinte di una provincia immutabile: li immortala con una lingua forse scarna, ma efficacissima, che coglie sempre la polpa della vita, il più delle volte in modo spietato; un modo per ricordarci che il destino – o dategli voi il nome che più vi aggrada – sembra vigliacco, nel colpire sempre i più indifesi.
Le miserie umane
Calibrando parole, frasi, dialoghi e descrizioni, telegrammi e lettere, Simenon pesca nell’acqua sporca delle miserie umane, mettendo a nudo le colpe, frugando tra le pieghe oscure dell’essere umano, fra le sue eterne contraddizioni. Racconti piccoli, ma compiuti, che sono palestra per le opere maggiori, e meritano l’attenzione di titoli più conosciuti o celebrati, perché accesi dallo stesso fuoco. In un albergo o in una drogheria, in un commissariato di polizia, a bordo di una chiatta o in una casa coloniale del Congo belga, sono più i sospiri e le mestizie rispetto ai motivi di conforto o di allegria. È la vita, bellezza!
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