Oltrepassare una soglia e sentirsi spaesati in una terra di confini che sembra non averne, la Liguria di Ponente, rurale e sempre uguale a se stessa. Lo fanno tre soldati in fuga dall’esercito napoleonico, immersi in un paesaggio di vallate, col sogno di raggiungere il mare. Sono i protagonisti de “Il cannocchiale del tenente Dumont”, il più recente romanzo di Marino Magliani, tra prosa raffinata e un’idea di paesaggio che ricorda Biamonti
Siamo nell’estate del 1800, tre soldati dell’esercito napoleonico, disertori dopo Marengo, si aggirano nelle vallate liguri dopo la fuga. Dietro di loro, le spie e gli emissari di un chirurgo olandese intento a studiare gli effetti dell’hascisc sull’esercito. Il cannocchiale del tenente Dumont (296 pagine, 20 euro), pubblicato da L’Orma nella collana dei Trabucchi, prende spunto da una storia affatto banale, il cui nucleo ispiratore era contenuto nel vecchio racconto di Marino Magliani L’estate dopo Marengo, e trova in questo romanzo l’inchiostro di un autore maturo che, dopo un lavoro di anni e anni sul testo, racconta una teoria della visione colorata di Liguria.
Marchingegni narrativi e voci
Lo fa attraverso una costruzione narrativa raffinata, un’architettura di voci, riferimenti, cronache che si presentano confezionate al lettore e ricostruiscono via via buchi narrativi, risolvono dubbi, svelano e rivelano voci. Di fatto Il cannocchiale del tenente Dumont non è che la cronaca di una diserzione raccontata attraverso una serie di testi (e oggetti) presentati da un sedicente autore, a sua volta impegnato a presentare i materiali di cui è composto il romanzo. Da una parte c’è quella che sarà chiamata fonte, nient’altro che uno dei tre protagonisti erranti; dall’altra ci sono le carte del dottor Cornelius Zomer tra cui il carteggio con il collega chirurgo Larrey, i dispacci della sua spia Pangloss, un camuffamento nella cronaca di Guglielmo Maria Baldiueri, la cui identità si preciserà meglio alla fine della lettura, e appunti privati annotati sui taccuini del dottore.
Dov’è la soglia tra voce dell’autore e voce del tenente Dumont? Si confonde, inafferrabile e ineffabile come i congegni narrativi insegnano bene, sfumata come un lago salato, ibrido tra mare e lago che genera confusione, “una specie di malinconia o di angoscia”. Ed è questa una delle immagini ricorrenti tra le parole del dottor Zomer, “la magia salmastra di ciò che non è più salato e non è ancora dolce, una specie di sogno ubriaco”. Come la cronaca dei tre: un viaggio che sembra avere una meta ma che in fondo non si conclude mai, confondendo la meta nel paesaggio, in uno spostamento perpetuo dell’orizzonte e del futuro.
Di hascish ed esperimenti, all’epoca di Napoleone
Il viaggio del capitano Lemoine, del sognatore tenente Dumont e del soldato basco Urruti inizia dopo la Campagna d’Egitto, nel 1799. Stremati da guerra e deserto, i tre soldati napoleonici si imbarcano sulla nave Carrère per riapprodare sull’altra sponda del Mediterraneo. È durante la traversata che Zomer li approccerà per la prima volta, innescando la storia.
I tre hanno infatti scoperto l’hascisc e il medico, ipotizzata la pericolosità della sostanza, che collega direttamente alla possibilità di diserzione, decide di osservare il loro comportamento. Per farlo si serve di spie, emissari, coperture, una rete di segreti che si metterà, occhio nemmeno troppo indiscreto, alle calcagna dei tre, da Marengo e durante tutto il lungo percorso che li vedrà spostarsi a piedi di vallata in vallata in una Liguria rurale, puntando alla meta di Porto Maurizio. Un porto dove, attraverso contatti tra i corsari, riuscire a imbarcarsi per fuggire e cambiare vita.
Giovanni Estate, italianizzazione di John Zomer, riporta osservazioni e pensieri sullo stato dei tre aiutato dalle cronache dei suoi emissari. Tutte le carte andranno a finire nella cartella dell’esperimento sanitario Mareotis, dedicato all’osservazione della diffusione dell’hascisc in Europa, potenzialmente assai pericolosa. Mareotis, nome antico del lago Meryut, proprio quello delle acque salmastre.
Un romanzo sulla visione
Dell’hascisc i tre smetteranno presto di fare uso, letteralmente persi in un paesaggio nel quale si sentono costantemente spiati, osservati e minacciati. La vita del disertore è un viaggio senza fine come il loro, forse, ma non dipende certo dalla sostanza. È piuttosto, invece, la necessità di un cambio di prospettiva che non vede ancora il futuro, ma lo immagina e lo desidera, forma della libertà a cui la diserzione disegna le ali.
Lemoine, Dumont e Urruti scrutano, studiano mappe, si avventurano, raminghi e sempre meno inibiti dal loro nuovo stato di soldati disertori. Si abituano all’idea di ciò che hanno fatto così come si immergono a fondo in un paesaggio che fa da contrappunto alle loro idee. Dumont, come ben suggerisce il titolo, possiede un cannocchiale attraverso il quale scruta l’orizzonte, un po’ si sente braccato, un po’ tenta forse di leggere un futuro che non vede, schiacciato sul presente. C’è in lui un po’ del calviniano Palomar, costantemente arrovellato sulla visione, creatura di un ligure come Magliani che per tutta la vita non smise di interrogarsi proprio sulla visione e sulla descrizione, sulla relazione tra occhio e mente.
Proprio attraverso visioni e descrizioni e con l’esercizio dell’occhio, amplificato dal cannocchiale, questo romanzo di Magliani narra dell’oltrepassare una soglia e dello spaesamento in una terra di confini che tuttavia sembra non averne, dove tutto si ripete uguale. Il viaggio diventa allora un presente da scoprire, uguale nel succedersi delle vallate che tornano, nel desiderare una visione del mare che è sempre lontano, ombra azzurra quasi irraggiungibile ma presente, punto fermo nella vista e nel sogno, o forse in entrambi, insieme.
La prosa nel paesaggio
È, ancora una volta, la Liguria di Marino Magliani: quella del Ponente attraversato dai tre soldati nelle sue vallate, una dopo l’altra fino a quella del Prino, tanto cara all’autore. Il cannocchiale di Dumont registra i rii e il loro scorrere tra paesi di pietre e ardesie, i mulini, le campagne terrazzate, il lavoro contadino che come una foto incapace di invecchiare immortala un volto di Liguria rurale, sempre uguale a se stesso.
La visione nell’esercizio dell’occhio di Dumont dà lo slancio alla descrizione con una prosa lavorata che, con soluzioni di estrema eleganza in cui riecheggia l’idea di paesaggio di Francesco Biamonti, allestisce uno sfondo dominato dalla natura inarrestabile che piega ai propri ritmi, quelli del lavoro contadino, delle stagioni. “Il mare non c’è e allora uno lo inventa” in questa Liguria di orti, campagne e fatiche, preambolo delle vie del sale che portano al Piemonte. Camminare per le sue valli è un esercizio per le pupille e per l’immaginazione: la terra si fa ipotesi verticale che sprofonda verso il mare, lontano.
Verticalità e mare: un’idea di Liguria che trasforma il mare in un’ambizione della vista. Mare come libertà, sogno di un imbarco accarezzato tra “l’aurora degli ulivi” che con le loro chiome “sostituiscono il contraltare liquido”. “Farsi accecare dal mare della Liguria dev’essere come chiudere le ciglia, i colori dell’iride inventano quello che vogliono e trovano solo ciò che stava già da qualche parte in attesa dell’incendio…Gli ulivi riescono a riappacificare, consumano i fantasmi” scrive Magliani attraverso il cannocchiale del suo tenente Dumont, un sognatore fuggito dall’esercito e perso in un paesaggio in cui “al mare di ulivi manca solo il mare, ed è davvero come se fosse nell’aria, nei colori”.
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