Area 22. Ronit Matalon e quella porta da riaprire…

Leggendo “E la sposa chiuse la porta” l’ultimo romanzo di Ronit Matalon, scomparsa poco dopo, il lettore – trascinato in modo magistrale in un mistero angosciante – sta come dietro un uscio di senso, sforzandosi di ricavare ogni possibile sfumatura di suono e di significato. L’isolamento e il silenzio della protagonista aprono la possibilità ai cambiamenti che avvengono e interrogano tutti

Ci vuole tempo per riaprire una porta. Ci vuole tempo per trovare le giuste argomentazioni, i giusti convincimenti, le parole perfette perché – dall’altra parte – l’autorecluso scelga di far fare un giro alla chiave dentro la toppa, un giro di chiave che può somigliare ad una rivoluzione di tutta la propria esistenza: una vera e propria chiave di volta.

Come mi capita in moltissime occasioni, anche in questo caso ho scelto questo libro perché attirato da due elementi fondamentali: il titolo e la copertina. Il tema delle nozze è sempre stato tra i miei preferiti (proprio così è nata questa rubrica, Area 22), specie all’interno di un contesto culturale in cui il matrimonio ha da sempre rappresentato non solo un evento sociale di grandissima portata ma, anche e soprattutto, l’intera realizzazione di una traccia genetica di esistenza, che soggiace – cioè – alla realizzazione dell’umanità in quanto tale.

Non è stato difficile, dunque, sebbene le poche pagine mi abbiano insospettito («non sarà mica la solita cosa raccontata a mo’ di poesia? Con quei flussi di pensiero pretenziosi e interminabili?!»), scegliere di leggerlo. Ho scoperto molto presto, in realtà, chele poche pagine (solo 107) altro non erano che un esercizio di spazio e di tempo, messo in moto perché gli eventi potessero essere descritti all’interno di un margine espressivo tale da riprodurre, in qualche maniera, la brevità degli eventi raccontati all’interno della storia: solo poche ore, proprio come quelle che servono a leggere il romanzo.

Già, un romanzo, un romanzo a tutti gli effetti. Perché produce ogni effetto del romanzo, dalle suggestioni che ti spingono a ricostruire la scena attraverso le immagini, alle sollecitazioni simboliche dell’autrice, che ti permettono di farlo. E perché, soprattutto, ti spinge a porti certe domande sullo scarto drammatico ma altrettanto reale e quotidiano tra l’evento più metafisicamente rappresentativo della necessità trascendente dell’essere umano, che lo spinge a realizzarsi diventando una sola cosa con un’alterità capace di dargli senso e significazione, e quella miseria borghese che – come una macchia di greggio sul mare – ricopre ed inquina l’anima dell’uomo moderno, convinto d’essere signore del mondo e della storia e, invece, perennemente imprigionato all’interno dei proprio schemi sociali, nella gabbia delle proprie convinzioni emotive. Quando succede questo, quando si registra questo scarto, chiudere una porta è una forma di liberazione, di coraggio, di svolta.

Lo sposalizio fra testo e lettore

Del resto stiamo parlando di Ronit Matalon, che non era certo all’inizio della sua attività quando scrisse queste pagine. E la sposa chiuse la porta, suo nono ed ultimo libro, è stato pubblicato da Giuntina nel 2017, stesso anno in cui Ronit Matalon, la porta l’ha davvero chiusa.

Un’anteprima, dunque, un anticipo quasi profetico. Oppure, semplicemente, una sorta di ricapitolazione. Ecco perché bastano poche pagine, perché il messaggio è essenziale anche se, esattamente come Mati (il promesso sposo della protagonista Marghi), dobbiamo stazionare dietro un uscio di senso, sforzandoci di ricavare – oltre quel limite – ogni possibile sfumatura di suono e di significato.

Mati, che sta dietro quella porta e cerca di convincere Marghi ad uscire, somiglia tanto al lettore che, dietro le pagine di questo libro, ne interroga il contenuto invisibile e nascosto e attende che venga fuori, ad un certo punto, spiegando le proprie ragioni e rivelandosi.

Forse sta qui il legame profondo che si crea tra il testo e il lettore: quello sposalizio che – almeno quello – si celebra davvero. Intrigante, in questo caso, il sottotesto che – già alla prima pagina – fa capolino e cerca di interagire con il lettore. Un richiamo ad un significato implicito che fa tremare prima i personaggi della storia (i primi ad essere presenti sulla scena iniziale) e poi, nelle pagine successive, anche chi legge.

Un significato implicito che, esattamente come la sposa, può nascondersi dietro una parola, dietro un semplice accenno tra i tanti che ricorrono tra le pieghe della memoria dei singoli personaggi, o in una delle moltissime e dinamiche descrizioni degli oggetti che – letteralmente – costituiscono parte attiva della narrazione e che, a modo loro, certo, interagiscono con una vivacità divertente e al contempo surreale. Proprio attraverso le descrizioni degli oggetti, dei loro connotati, delle loro specifiche nature e collocazioni, si scopre la versatilità e l’ironia dell’autrice che, davvero, fa pronunziare una parola a tutti gli elementi di fondo.

Voci che si rincorrono nel silenzio

Il romanzo di Ronit Matalon, che comunica la sua narrazione proprio come una pièce teatrale, e con la stessa forza espressiva, è fatto di tutte queste voci che si rincorrono faticosamente nello sfondo di un assordante silenzio.

Soprattutto quando parlano i ricordi; spesso non direttamente formulati ma, in qualche modo, appiccicati ai contorni della storia come fantasmi sulle pareti di un sogno: ricordi come vapori onirici, che ritornano coi loro simboli e ti fanno venire un brivido alla schiena perché, come nel primissimo Ishiguro Kazuo (Un pallido orizzonte di colline), essi sì che ti aprono la porta, quella delle possibilità, così che tu – lettore – può scriverti in testa un altro romanzo mentre leggi questo, e comprendi anche perché il titolo cominci con una congiunzione.

E qui apro una parentesi.

Ricordo il divertentissimo sketch di un comico, di ormai un po’ di anni fa (quand’era serio e faceva il comico, appunto), quando se la pigliava con quella moda tutta retorica di far cominciare certi articoli di giornale con la “E”…

Stravolgono la lingua! Se voi prendete un qualsiasi giornale, uno qualsiasi, aprite e almeno tre titoli cominciano per e! Ma cosa significa?! Per e?!! Devi imparare l’italiano!! Non puoi cominciare per e!! “E Ciampi andò in Germania”… Ti viene un senso di inquietudine perché dici: ma cosa ha fatto prima?! È come andare al cinema a vedere il secondo tempo!!  

 

Per l’appunto! E si capirà subito che se in un giornale la cosa può apparire fastidiosa, sulla copertina di un libro – invece – ti spinge a desiderare fin da subito proprio quell’inquietudine senza la quale, magari, una lettura non apparirebbe così gustosa. Quindi mi permetto di aggiungere un esempio a quello della citazione sopra citata: è come se, leggendo quel titolo che è come la seconda parte di un binomio inscindibile, qualcuno ti invitasse a ricercarne il primo termine, tra le poche righe che, forse, ne costituiscono l’esito.

La sposa claustrata e altre assenze

E così, accanto a Marghi, la sposa claustrata, appare sua sorella Natalie. Appare senza apparire perché, in quella casa, essa non è più nulla se non un ricordo, appunto, una ferita. Una ferita fasciata alla meno peggio, come si può fasciare l’orrore col terrore, o col terrorismo, perché paradossalmente appaia più umano, più tollerabile. Ma ti viene il sospetto che questa fasciatura sia fatta per la necessità di apparire socialmente più accettabili: il terrore è comprensibile, l’orrore mai.

Questa Natalie, dunque, un’altra assente. Ma capace di suscitare una tale tensione all’interno della storia, e di aprire porte talmente larghe alla costruzione di qualunque ipotesi, che è quasi come una seconda protagonista. Marghi e Natalie: una non si vede perché è dietro una porta, l’altra perché qualcuno ha chiuso una porta sulla sua vita; l’una non parla, l’altra non può più farlo; la prima è attesa da tutti, la seconda non la si attende più. Forse. E quei pochi sprazzi di disperata speranza hanno il suono della carta stagnola delle caramelle, e anche loro stanno nascosti.

Nadia, la madre della sposa, come la quasi consuocera Pninit, sembrano le due descrizioni del senso comune, quello conscio della propria indigenza e quello inconsapevole della propria miseria borghese, entrambe a modo loro dignitose, entrambe grottesche, dove l’impulso al dramma umano non riesce a venir fuori perché soffocato da continue razionalizzazioni, da continui rincuoramenti auto-trainanti ma altrettanto inutili. Poi c’è Ariyeh, il padre dello sposo, che partecipa agli eventi quasi come un estraneo, sorridendo davanti a certe cose, rimanendo in silenzio davanti ad altre e senza il potere di intervenire sulla realtà/pagina: semplicemente, aspetta che accada qualcosa, o forse neanche aspetta più. Aspetta forse che la cosa si risolva, e basta. E c’è un momento, all’interno del romanzo, in cui lo aspetta anche il lettore, non perché spazientito, ma perché trascinato in modo magistrale all’interno di un mistero che diventa angosciante e che Mati, in effetti, sembra l’unico a voler sciogliere, a spese di se stesso e della sua memoria incespicante.

Nonnuzza, il cui ruolo parentale è subito chiaro, è forse – fin da subito ma molto più man mano che si legge – la lente proiettiva di un significato più altro di quello letterale: la sua demenza senile, che la rende la terza eccellente assente della storia, non le impedisce tuttavia di comunicare.

Marghi, Natalie, Nonnuzza: tre donne che non vogliono parlare, che non possono più farlo, o che non vengono capite quando lo fanno. È l’incomunicabilità di fondo, resa tale dalla grettezza dei recettori umani presenti sulla scena, a renderle mute. Nonnuzza, tuttavia, anche se non è capita parla ugualmente. Ed è una parola che c’è sempre, anche attraverso i gesti, anche attraverso certe semplici espressioni di vecchietta (una vetustà sacralmente sospetta!): una parola che non sempre è voce, ma che a suo modo performa gli eventi. È sua la frase, all’inizio del libro: Vanità? Perché vanità? Marghi non è per niente vanitosa… Anche qui un binomio: e la prima parte è un evidente richiamo, troppo forte perché non appaia carico, fin dall’inizio, di quel giudizio discreto che l’Autrice consegna non certamente alla sposa, ma a tutti gli altri, alle loro vite, alle loro attese abituate a farsi dimentiche di se stesse. Così, fedele al suo ruolo di nonna, Nonnuzza è l’unico ingranaggio simbolico che precede gli eventi e l’unico che dà loro compimento.

Una ribellione?

E nel frattempo lei, Marghi, quella che non si vede, è forse l’unica capace di “esserci”, perché il suo moto di ribellione (ma è veramente ribellione, o è paura, o è follia, o altro?), di fatto, attiva la vita dove la vita non c’è, per il fatto stesso di sovvertire la ritmica stanca delle abitudini e dei compromessi. Il suo serrarsi apre la possibilità a dei cambiamenti che, in qualche maniera, avvengono. Se non altro per il fatto che il suo silenzio interroga tutti, lettori compresi.

Neanche la psicologa, che si chiama Julia Englander, passa sulla scena senza lasciarvi lo strascico del suo significato simbolico che diventa – forse – citazione letteraria. È chiamata dalla famiglia della sposa, perché è una psicologa speciale, di coloro che “sanno come affrontare situazioni di questo tipo”. Già, una di quelle che – si direbbe – sa cosa fare per alleviare insopportabili impulsi (raccolta di racconti di Nathan Englander, appunto). E persino a Leah Goldberg, e questa volta esplicitamente, è richiesto il contributo di una poesia presa in prestito, trascritta dalla sposa e fatta passare sotto la fessura della porta.

Tale è dunque la poesia per Ronit Matalon: una verità che viene dall’alto ma che passa da sotto e che, forse, può esser compresa solo da chi l’ha scritta o da chi – in quel caso – l’ha trascritta.

In questo indizio sotteso, che unisce Marghi e Leah come vittime dell’incomprensione borghese, si può leggere forse, parallelamente a tutto il libro, lo sfogo severo dell’Autrice, anche lei per molto tempo rimasta dietro una porta, chiusa lì da critiche feroci e derisorie, banali e insignificanti come spesso appaiono i comprimari di questo romanzo: irrilevanti e capaci di far male allo stesso tempo, capaci di non ascoltare e di non averlo mai fatto, capaci di nuocere nella forma più apparentemente inoffensiva, quella della quotidianità, dell’ordinarietà abituata a se stessa; capaci, insomma, di far sparire la gente.

Almeno fino a quando qualcuna, una sposa, non chiuda la porta per esserne liberata. E a sparire saranno loro.

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