Primo maggio senza celebrazioni, seconda Festa dei lavoratori condizionata dalla pandemia, le statistiche sull’occupazione che non promettono nulla di buono e noi rilanciamo con diciannove libri – classici e contemporanei, narrativi e saggistici – che puntano gli occhi su splendori e miserie del lavoro: quello che c’è, quello che manca, quello precario, dal punto di vista delle donne, dal punto di vista dei più deboli…
“La confraternita dell’uva” di J. Fante (Einaudi)
Parlare di lavoro, ieri come oggi, non può prescindere dall’occuparsi di altri grandi temi collegati alla lotta quotidiana per la sopravvivenza: il tema delle migrazioni è emblematico, oggi come ieri, anche ai tempi di John Fante (1909-1983) definito da Charles Bukowski «il narratore più maledetto d’America», figlio di un abruzzese emigrato oltreoceano nel 1901, quando i migranti eravamo noi. Nell’opera di Fante su tutte spicca la figura di Arturo Bandini, la cui saga si compone di quattro romanzi, Aspetta fino a primavera Bandini (1938), La strada per Los Angeles (1936, ma pubblicato postumo), Sogni di Bunker Hill (1982) e Chiedi alla polvere (1939), tutti arrivati da noi grazie a Marcos y Marcos e successivamente riproposti da Einaudi. Senza dimenticare i numerosi altri titoli di colui che Pier Vittorio Tondelli circa quarant’anni fa definì «una grande riscoperta, forse una scoperta tour court», con i personaggi dei romanzi che sono la varia, vitale e sgangherata umanità degli immigrati italiani nel secolo scorso, fra cui come non ricordare il Nick Molise in La confraternita del Chianti, romanzo del 1977 (uscito in Italia sempre grazie a Marcos y Marcos e dal 2016 in edizione Einaudi con il titolo La Confraternita dell’uva), Nick che si definisce il primo scalpellino d’America, che sogna una tribù di figli-muratori al soldo della sua arte e che cerca di coinvolgere il figlio scrittore Henry (alias John Fante) in un’impresa tanto assurda quanto inutile: costruire un essiccatoio per pelli di cervo a duemila metri di altitudine, perché in ogni caso il lavoro nobilita l’uomo. (Simone Bachechi; qui tutti i suoi articoli)
“Il taglio” di A. Cartwright (66thand2nd)
Uno di quei libri in cui si racconta il lavoro ai tempi della Brexit, la svolta del Regno Unito vista dalla zona più industrializzata dell’Inghilterra, la working class incarnata da un operaio che raccoglie rame in fabbriche dismesse. Se volete saperne di più ne ho scritto qui. (Arturo Bollino; qui tutti i suoi articoli)
“108 metri – The new working class hero” di A. Prunetti (Laterza)
La nuova classe lavoratrice, il nuovo sfruttamento, la generazione del precariato e della ricerca di un’identità sociale e di classe che almeno sosteneva i nostri padri. Secondo di una trilogia ideale che racconta la bestemmia dello sfruttamento lavorativo, 108 metri è il capitolo che riguarda la generazione tra i 35 e i 50 anni, quella del mondo del lavoro dove la differenza tra privilegiati e sfruttati non rispecchia il livello culturale, ma la sola provenienza sociale.
Partendo da esperienze autobiografiche, Prunetti racconta lo sforzo della classe operaia del dopoguerra di emancipare i propri figli dal duro lavoro di fabbrica attraverso lo studio e i titoli accademici e lo scontro con una realtà in cui il titolo e la competenza non bastano, un mondo dove non si è mai abbastanza. Scritto in prima persona, il romanzo racconta di un giovane che prova (come migliaia di italiani) il trasferimento nella agognata Gran Bretagna per migliorare la propria la lingua, mantenersi con un lavoro, costruirsi un futuro diverso. Il protagonista si troverà invece proiettato nel mondo dei «suburban skies», circondato da personaggi tanto inverosimili quanto umani, la vita stipata in un appartamento minuscolo, la fatica di lavori dove la dignità è quasi zero, dove la consapevolezza di valere e non riuscire a trovare spazio fa montare una rabbia che non ha riscontro negli altri, che si annulla «tra il bancone e la latrina di un qualsiasi pub inglese».
Il ritorno in Italia, l’abbraccio con il padre servirà a far comprendere al protagonista quanta dignità, quanto consapevolezza di classe stave nel costruire rotaie di 108 metri, in quelle regole operaie che erano internazionali e che sono state ingurgitate da un liberismo economico spietato. (Anna Caputo, qui tutti i suoi articoli)
“Memoria imperfetta. La comunità Olivetti e il mondo nuovo” di A. Tarpino (Einaudi)
L’idea di lavoro nella comunità olivettiana: così si può definire quell’universo creato a Ivrea, esempio limpido – e forse l’unico – di una vera comunità industriale. Su questo progetto di “fabbrica”, mai così diverso dall’idea e mai, per contro, così vicino all’ideale di un mondo nuovo, si concentra Antonella Tarpino nel suo libro, riportandoci al laboratorio visionario di un’industria che fece la storia guardando avanti, dove oggi vediamo una memoria che forse potrebbe indicarci vie per un domani diverso. (Alessandra Chiappori, qui tutti i suoi articoli)
“Uomini e caporali” di A. Leogrande (Feltrinelli)
Un’inchiesta lunga un libro, uno scrittore che manca nel mosaico della letteratura italiana contemporanea, un volume che illumina su una delle tragedie senza fine del mondo del lavoro, perché pochissimo è cambiato in un secolo, da un eccidio di braccianti del 1920 alla schiavitù di chi raccoglie pomodori nelle campagna del Tavoliere: africani o polacchi che lavorano più di 14 ore al giorno, coi fucili puntati addosso da uomini privi di dignità. (Giosué Colomba, qui tutti i suoi articoli)
“Formazione e narrazione” di C. Kaneklin. e G. Scaratti (Raffaello Cortina)
Il lavoro, questo illustre sconosciuto! A fronte di una parola abusata e inflazionata, ancora oggi della dimensione lavorativa conosciamo poco e quel poco che sappiamo fatichiamo a metterlo in pratica. Kaneklin e Scaratti, in questo testo non recentissimo, ma sempre attualissimo, ci portano a scoprire quanto la vita nelle aziende è determinata, oltre che dai numeri, dalle persone e ancora di più dalle narrazioni che i gruppi producono e quanto queste narrazioni possano essere, se adeguatamente orientate e rielaborate, potente strumento di crescita e cambiamento. (Vera Chiavetta, qui tutti i suoi articoli)
“Robledo” di Daniele Zito (Fazi)
Un romanzo estremamente attuale che narra di lavoratori precari votati al lavoro per il semplice gusto di lavorare, di Ghost Worker, ovvero di gente che lavora non per soldi ma per sentirsi utile, per avere uno scopo quando ci si sveglia al mattino, per non perdere la dignità. Lo fa con una ironia di fondo che sfocia sovente nell’amarezza. Da un lato vi farà sorridere perché la narrazione sfiora il grottesco, dall’altro vi commuoverà perché quello del lavoro sottopagato è il dramma delle generazioni post-Democrazia Cristiana. (Giovanni Di Marco; qui tutti i suoi articoli)
Jünger, Hugo e Bianciardi
L’operaio: dominio e forma (Guanda) di Ernst Jünger è l’opera che pone al centro la figura del lavoratore inesorabilmente fagocitato dai valori che la società borghese sta vivendo in seguito alla Grande Guerra e di cui il nazifascismo rappresenterà uno degli esiti estremi.
I lavoratori del mare (Mursia) di Victor Hugo, del 1866, è una delle opere della maturità: le tematiche care all’autore francese (tra queste lo scontro tra passioni e ideali) vengono raccontate con uno slancio inedito che risente delle prime affermazioni di una «civiltà meccanica». Il lirismo di Hugo sembra sfuggire alle leggi di questa nuova civiltà che si sta formando, crogiolandosi nell’ormai trascorso periodo romantico come momento di estasi poetica.
Il lavoro culturale (Feltrinelli) di Luciano Bianciardi è l’opera a metà tra pamphlet e saggio di costume in cui prende forma la vita culturale della provincia grossetana tra il dopoguerra e i primi anni ’50. Con ironia e sagacia, l’autore, seguendo le orme della sua stessa carriera, racconta la sfiducia di una certa fascia di intellettuali che non videro negli ideali di liberazione una reale svolta culturale e politica. (Sara Durantini, qui tutti i suoi articoli)
“Stupore e tremori” di A. Nothomb (Voland)
Quando il sogno di lavorare in una grande impresa nipponica si infrange contro la rigidissima struttura aziendale e gli incomprensibili codici comportamentali in cui la protagonista si troverà invischiata. Con grande ironia Amélie Nothomb ci trascina nelle grottesche situazioni di uno dei suoi romanzi più riusciti. (Maria Grazia La Malfa, qui tutti i suoi articoli)
“Storia della mia gente” di E. Nesi (Bompiani)
Certi industriali di provincia che non ci sono più, l’inabissassi dell’industria tessile italiana, svenduta, Prato invasa dai cinesi, capannoni chiusi, elegia e nostalgia. Un ex imprenditore, che da lungo tempo si dedica a tempo pieno alla scrittura di libri, mette in questo tanto sentimento e ancora più rabbia, fra cronaca, saggio e riflessione. (Giovanni Leti, qui tutti i suoi articoli)
“Il padrone” di G. Parise (Adelphi)
A proposito di lavoro intellettuale. Goffredo Parise in questo romanzo ci catapulta in una casa editrice d’eccellenza e nel mondo di un editore, il dottor Max (Livio Garzanti, sotto mentite vaghe spoglie), ritratto come un dirigente capriccioso e perfido, che tratta i dipendenti alla stregua di oggetti. Pagine immerse nel grottesco, da cui emerge, fra le altre cose, anche certa alienazione che stava dietro gli anni del boom economico. (Salvatore Lo Iacono, qui tutti i suoi articoli)
“Furore” di J. Steinbeck (Bompiani)
Il romanzo, scritto nel 1939, continua ad essere molto attuale, infatti la disoccupazione continua ad affliggere anche la società odierna e, soprattutto per i giovani, l’emigrazione, come per la famiglia Joad, protagonista del suddetto romanzo, diventa spesso l’unica opportunità, affinché da miraggio sofferto il lavoro diventi realtà. (Francesca Luzzio, qui tutti i suoi articoli)
“Candido” di Guido Maria Brera e I Diavoli (La nave di Teseo)
“Femminile plurale” di Giorgia D’Errico (Round Robin)
“Manodopera” di Diamela Eltit (Polidoro editore)
“Appunti di un giovane medico” di Michail Bulgakov (Bur)
“Cordiali saluti” di Andrea Bajani (Einaudi)
Piccolo prezioso libro. Il protagonista scrive lettere di licenziamento, colme di retorica: è soprannominato il Killer e ammanta le fatali comunicazioni di gentilezza, una gentilezza che non riesce a nascondere la crudeltà, almeno sul luogo di lavoro. Smessi i panni del dipendente, per fortuna, il Killer è capace perfino di far del bene… (Micol Treves, qui tutti i suoi articoli)