Katharina Volckmer debutta con “Un cazzo ebreo”, incessante flusso di pensieri in formato monologo: una donna tedesca, trasferita a Londra, parla di sé in uno studio medico, tra ricordi e sensi di colpa. L’autrice, però, avrebbe potuto fare di più e di meglio…
Un esordio letterario alquanto ambizioso, quello della tedesca Katharina Volckmer, autrice di Un cazzo ebreo (176 pagine, 16 euro), edito dalla casa editrice La Nave di Teseo, tradotto in italiano da Chiara Spaziani. Quanto poi si possa dire effettivamente riuscito, questo è un altro discorso.
Soliloquio opaco, dissacrante ed erotico
Tutto il libro di Volckmer è un lungo soliloquio di una giovane donna tedesca, trasferitasi a Londra, che parla di sé nello studio medico del dottor Seligman. Un profluvio di parole, cariche di rimpianto, malinconia e struggente solitudine, che non prevede interruzioni, dialoghi o stacchi. Un monologo, alcune volte opaco, alcune volte dissacrante, che attraverso un incessante flusso di pensieri, sfiora temi diversi, anche distanti tra loro. Ci sono fantasie erotiche inenarrabili e sensi di colpa per un passato – quello tedesco – che riaffiora sempre. C’è il ricordo di una madre autoritaria e di un padre sfumato, quasi inconsistente.
L’amore clandestino
Fa capolino nel libro di Volckmer una critica ad una società che vuole tutti conformi e livellati, infischiandosene delle vere esigenze delle persone. E infine lampeggia tutto intorno l’amore per K., un artista sposato con prole, per il quale la protagonista si innamora perdutamente, vivendo una storia clandestina intensa e pressoché totale. Un’amarezza di fondo abita queste pagine che comunque non si fanno leggere volentieri. Qualcosa di incompiuto e irrealizzato suggerisce l’idea che la giovane autrice avrebbe potuto fare di più e di meglio. Leggerlo può essere un esperimento. Non leggerlo non è di certo un peccato.
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