Una stirpe di rabbini, tra le strade impolverate della Toscana e della Palestina, è al centro de “Il rinnegato”, giallo letterario dello storico Ariel Toaff, in cui riecheggiano trasfigurati alcuni cenni autobiografici. Una storia che trascina il lettore fra le atmosfere ebraiche di un Ottocento affascinante ed enigmatico, come Eco aveva fatto col Medioevo…
Dopo aver fatto parlare di sé, oltre 10 anni fa, con Pasque di sangue (Il Mulino), Ariel Toaff è tornato in libreria con un giallo letterario dalle atmosfere misteriche, Il rinnegato, uscito per i tipi di Neri Pozza (288 pagine, 18 euro) nella collana Le Tavole d’Oro. L’espediente narrativo adoperato dall’autore non è una novità assoluta, ma è costruito con maestria e risulta assai efficace in termini di appeal: in altre parole, Toaff vi ghermisce sin dalle prime pagine e vi trascina con forza fino alla fine.
Accuse di eresia e un manoscritto
Il rinnegato è un intrigo religioso ambientato nell’800 con evidenti cenni autobiografici di natura allegorica, in pieno stile Jewish Literature. Il protagonista Moisé Ajash è figlio e nipote di rabbini, proprio come Ariel Toaff. E come Toaff anche David Ajash (ovvero il padre di Moisé, “il rinnegato” del romanzo, personaggio storico vissuto a Livorno in epoca napoleonica) fu accusato di essere un eretico a causa delle sue idee espresse tramite un libro. Tutto ruota attorno ad un manoscritto, una sorta di diario-testamento, che il rabbino David Ajash – morto di morte violenta (omicidio o suicidio?) – fa pervenire al figlio, Moisé, a sua volta stimato rabbino e studioso della Torah. Ma i due si erano allontanati da tempo immemore, perché David nel corso della sua vita si era distinto più per la sua dissolutezza morale che per la saggezza e la virtute che il ruolo gli avrebbe imposto.
È questo il destino dei figli coscenziosi:
costretti a erigere monumenti a padri indegni
Quel padre opportunista e vizioso
Le sue scelte scellerate – in primis quella di abbandonare moglie e figli – lo avevano portato lontano da Gerusalemme (in Italia, tra Toscana ed Emilia) e quando anni dopo era stato costretto a fare ritorno in Terra Santa, era finito per essere emarginato in un villaggio dimenticato da tutti, a Nablus, nei pressi di Hebron. Il figlio (Moisé) tra le pagine del manoscritto ritroverà non solo quel padre opportunista dedito ad ogni forma di vizio e alla Kabbalah, ebreo di nascita, ateo per convinzione e convertito al cristianesimo per convenienza, ma anche un uomo che lui, per scelta e per sorte, non aveva avuto modo di conoscere e forse di apprezzare.
Nella fede ho sempre e solo trovato il bisogno
di quel conforto che la fede stessa ti nega,
rimanda, procrastina, all’infinito.
Tradizione millenaria e dimensione storica
Il romanzo è impregnato della dottrina ebraica, ma non si avverte alcun eccesso. Il testo, sebbene carico di significati multipli, scivola fluido ed è accessibile a tutti. A risaltare su tutto, però, sono le atmosfere ottocentesche che proietteranno il lettore in un mondo affascinante, rischioso ed enigmatico, ricco di dettagli accattivanti e infarcito di tutte quelle tradizioni millenarie del mondo giudaico che solo uno studioso dall’altissimo profilo come Ariel Toaff poteva dipingere così vividamente. In questo senso, con i dovuti distinguo, non sorprenda il parallelo con Il nome della rosa, e non per la presenza iniziale di un manoscritto, ma per la dimensione storica che Toaff è riuscito a plasmare: insomma, se Umberto Eco ci ha presi per mano e condotti in un monastero medievale del XIV secolo, Ariel Toaff riesce a fare altrettanto con la sua stirpe di rabbini, tra le strade impolverate della Toscana e della Palestina.
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