Oggi, quarantasei anni fa, la scomparsa di Salvatore Satta, illustre giurista e autore del romanzo postumo “Il giorno del giudizio”, un classico, un caleidoscopio di anime erranti. Opera romantica, epocale, poetica, corale, malinconica e visionaria, in cui emerge, su tutto, una solitudine estrema, camuffata dietro l’apparente tranquillità di una famiglia di ricchi possidenti nella Nuoro dell’inizio del secolo scorso
Il 19 aprile del 1975 è mancato Salvatore Satta, già tra i più grandi giuristi italiani, componente di commissioni governative e del quale molte opere giuridiche sono tuttora adottate come testo nelle più prestigiose facoltà universitarie. Da quel giorno è iniziata la sua nascita come scrittore, perché alcuni scrittori nascono postumi, almeno dal punto di vista editoriale. Di illustri esempi nel mondo letterario di autori formatisi e operanti per tutta la vita in un diverso ambito professionale è piena la storia della letteratura. Vale ricordare “l’ingegner fantasia” Carlo Emilio Gadda o il purtroppo semisconosciuto siciliano Antonio Pizzuto, questore per una vita a Roma, mentre per formazione strettamente giurisprudenziale come non ricordare un monumento quale quello di Honoré De Balzac il quale avviato precocemente alla carriera giudiziaria ne mostrerà repulsione traendone allo stesso tempo esperienza circa gli aspetti più sordidi dell’umana convivenza: «queste fogne che non si possono ripulire» dirà parlando degli uffici giudiziari l’autore della Comédie Humaine, aggiungendo ulteriormente «un uomo che ne giudica un altro, quale più grande orrore». É la stessa voce dell’io narrante di Il giorno del giudizio (Adelphi 1979, 292 pagine, 12 euro), con evidenti riferimenti autobiografici all’autore e giurista sardo a esprimersi in merito nel suo capolavoro: «Nel diritto si esprime tutta la crudeltà della vita».
Tra vecchie carte
Il giudizio di Georges Steiner
Georges Steiner, il grande critico, saggista e accademico francese scomparso lo scorso anno, il quale definirà Il giorno del giudizio «uno dei capolavori della solitudine e della letteratura moderna», scriverà le più belle parole sul capolavoro di Satta, contenute in Letture, il compendio dei suoi interventi sul New Yorker (Garzanti 2010, 396 pagine, 22 euro), parole che costituiscono il più valido strumento di penetrazione nella poetica e nei luoghi del romanzo (a seguito di un suo viaggio nei territori sattiani). Dirà Steiner sull’autore: «La sua sensibilità si formò sulla dura, lapidaria latinità degli storici e dei giureconsulti romani», chiamando in causa Tacito e Hobbes, omologhi in qualche modo del “giurista” Satta. Un romanzo sui morti e per i morti tanto da essere stato più volte definito la Spoon river della letteratura italiana. Lo dirà lo stesso Steiner: «un sardo, un nuorese può ammettere che un unico luogo è ricco: il cimitero». Sarà invece Satta a dare la migliore introduzione al suo romanzo “postumo”: «Scrivo queste pagine, che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte». Per chi le scrive dunque? Per i morti, cercando, scrivendo, di fissare il passo del tempo che mai più tornerà, perché dirà ancora:
«Mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sento come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria»
Chiedendosi «se ci sia più speranza in tutte quelle tombe dove i morti se ne stanno soli o in questa terra sotto la quale le ossa di infinite generazioni si accumulano e si confondono, si sono fatte terra anch’esse».
Una processione dantesca in un’opaca luminosità
Il giorno del giudizio è una sorta di processione dantesca nella quale sfilano in un’opaca luminosità i personaggi di una varia e afflitta umanità che si ritrova ai tavolini del caffè Tettamanzi, uomini e donne le cui menti sono sconvolte dal vino, dalla pazzia e dalla solitudine, contadini sfruttati dai padroni che nell’arida terra bruciata dal sole e dal vento lavorano a mezzadria e che Don Ricciotti, maestro elementare, cercherà di riscattare candidandosi alle elezioni sfidando la piccola oligarchia di avvocati ben rappresentata da Don Sebastiano che da sempre domina la scena politica locale accentrando su di sé la ricchezza, facendosi interprete il maestro delle istanze dei poveri e voce di quel socialismo che allora spiegava le sue ali, e ancora dinastie come quella dei Corrales che «maneggiavano i fucili come fossero giocattoli», e beoni, scansafatiche, una «comunione di angeli e diavoli» che «forse solo la musica nella sua astrattezza può rappresentare, e forse la sola e la vera storia è il giorno del giudizio, che non per nulla si chiama universale».
Il diritto d’essere amato, non il tempo per amare
In questo caleidoscopio di anime erranti il perno è la famiglia Sanna Carboni, la loro minima epopea, si può supporre gli avi dell’autore, confusi anche loro nel ricordo scritto e nella terra che li avvolge. Su tutti emerge la figura di Don Sebastiano, il notaio del “paese” che mette il sigillo su matrimoni combinati e sulle varie istanze dei concittadini, il ricco possidente che sovrintende alle sue proprietà e ricchezze a suon di carte bollate. Quel «Don Sebastiano che non voleva confessare che la famiglia alla quale aveva dato tutto se stesso gli era rimasta estranea», uno che per «come aveva lavorato ha diritto di essere amato, ma non ha tempo per amare». Il matrimonio fra Don Sebastiano e Donna Vincenza, figlia di un “continentale” venuto dal Piemonte, è l’esemplificazione stessa della morte, con Donna Vincenza portata oltre i limiti del martirio dalla fredda rabbia del marito, a quarant’anni con un fisico sfiorito, una precoce vecchiaia e un matrimonio naufragato nell’indifferenza, la quale sgrana lentamente un rosario che aveva ricevuto il giorno delle sue nozze, mentre i suoi occhi fissi nel vuoto non vedono Dio. La famiglia Sanna Carboni, con i sette figli perduti nella diaspora “continentale” ai quali Don Sebastiano rimprovererà in diverso modo a ciascuno di cercare «un pane diverso di quello che proviene dal grano», solo Ludovico rimarrà nella casa paterna cercando di calcare le tracce del padre, diventando avvocato, mancando l’amore dopo un fidanzamento di dodici anni con la figlia della dirimpettaia famiglia Mannu, per semplice inerzia.
Il primo Novecento e il tempo immobile
Il racconto si snoda dai primi del ‘900, fino allo scoppio della grande guerra e immediatamente dopo «alla maniera di un sogno in quella landa bruciata», nelle aride terre della Barbagia, a Nuoro e nei borghi adiacenti di Sèuna, San Pietro, Locoi, Oliena, che ne sono il contorno e diventano «lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere. Di un paese, come del mondo forse. Perciò non vi era odio, non vi era amore. L’odio e l’amore si compensavano e si componevano nella necessità di conservare gli altri per conservare se stessi».
Il tempo sembra scorrere immobile grazie al linguaggio lirico ed epico allo stesso tempo di Satta dove eventi maggiori e minori, i riti della vendemmia, omicidi, suicidi, l’arrivo in città della luce elettrica, l’insediamento del nuovo vescovo con la cui dipartita «si porterà appresso il suo mito e i preti di Nuoro ripresero a guardarsi in cagnesco» perché «la verità è che essere vescovo a Nuoro non era una cosa facile», sembrano cristallizzarsi nella reciproca compresenza della vita nella morte.
Opera romantica, epocale, poetica, corale, malinconica e visionaria Il Giorno del giudizio può davvero essere definita l’Antologia di Spoon river della nostra letteratura, nella quale nel finale, nella seconda parte (in realtà una sola pagina che è la dichiarazione di intenti dell’autore di questo capolavoro), l’autore o io narrante che si voglia definire confesserà che la sfilata dei personaggi sul proscenio del romanzo non è stata che una sua rappresentazione: «Sono io che ragiono, ora che la terra li copre tutti, e tutti sono insieme condannati o assolti», in ogni caso un tentativo di parlare e rappresentare quei vivi e quei morti, perché vale anche in letteratura la difficoltà di ritornare al passato, che è quella di mantenere le prospettive, perché ognuno di noi anche se si limita a guardare se stesso, si vede nella fissità di un ritratto, non nella successione dell’esistenza con persone che hanno vissuto sotto lo stesso cielo e dormono nella stessa fossa. Dirà infatti il “postumo” Satta nel finale del romanzo: «Sono io che li ho evocati per liberarmi dalla mia vita; senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno» perché ammetterà: «non si tratta dell’altrui destino, ma del mio», e della colpa atroce di essere stati vivi.
È possibile ordinare questo e altri libri presso Dadabio, qui i contatti