“Il dannato caso del signor Emme” di Massimo Roscia è un romanzo eclettico, ironico, colto, all’apparenza poco impegnativo, ma frutto anche di una grande documentazione. Protagonista un gruppo di personaggi eccentrici (non solo individui ma anche una massa gelatinosa chiamata Buf) impegnati nella missione-ossessione di salvare dall’oblio la memoria di un intellettuale italiano del Novecento, in cui si riconosce Paolo Monelli
È possibile costruire una storia accattivante prescindendo da uno studio certosino degli elementi che la comporranno? Forse sì. Del resto i geni esistono e gli outsider pure. Casi rari e sempre più rari da scovare in un mondo che produce di tutto e di più. Ciò non di meno, ho sempre creduto che nella maggior parte dei casi siano lo studio, la preparazione, la consapevolezza dell’importanza del perenne approfondimento a contare e a fare la differenza, così come ho sempre creduto che costruire un look acqua e sapone sia molto più impegnativo e richieda molta più maestria che non strutturarne uno appariscente come un fuoco d’artificio, ma che, proprio come un gioco artificioso, è spesso destinato a restare un lampo, una meteora. In fondo Roma non è stata costruita in un giorno. Sarà per questo che, quando sempre più eccezionalmente, incontro opere intrise del valore del tempo dell’otium ne resto irrimediabilmente colpita. Ebbene, Il dannato caso del signor Emme (322 pagine, 16,50 euro) di Massimo Roscia, pubblicato da Exorma edizioni, ha rappresentato per me una piacevole eccezione.
Una stramba famigliola
Roscia, infatti, dimostra, riga dopo riga, un acume eccezionale, espresso attraverso una scrittura magistrale, camaleontica, sfavillante e un’impressionante tensione al lavoro di ricerca documentale e storiografica, nonché un guizzo creativamente metodico, messo a servizio di una storia ricca, colta, con un occhio orientato al passato e uno a un futuro a tratti prossimo – e dunque prospettico – e a tratti anteriore – quindi visionario. Il risultato finale è un romanzo straordinariamente congeniato nei contenuti – una vicenda “folle”, eppure pienamente reale e credibile –, nei personaggi – paradossalmente autentici – e nello stile narrativo divertente e gradevolissimo – a distanza di qualche anno da La strage dei congiuntivi, Roscia si conferma ancora una volta abilissimo nell’uso della penna, raffinato cultore delle suggestioni della parola, sperimentatore di registri visivi e linguistici che, cumulandosi senza obbligo di integrazione, finiscono per formare una sorta di collage.
Protagonista del romanzo è una stramba famigliola composta da Carla, i suoi due gemelli monozigoti di undici anni, uno zio/non zio, che si fa chiamare Giordano, e un’entità non meglio identificata di nome Buf.
Carla «è una donna affascinante dal corpo minuto, ma flessuoso e ben proporzionato, il viso di porcellana […] reso più autentico da una piccola e quasi impercettibile cicatrice sul mento, la bocca […] maliziosetta, due occhi blu […] e una chioma ramata che vira al biondo e che le gocciola sulle spalle di alabastro». Questa sua femminilità rinascimentale fa, però, a pugni con un abbigliamento improbabile: gonne lunghe e pacchiane, accostamenti cromatrici inusuali, camicette a fiori, vestiti oversize, pantaloni a zampa rattoppati… uno stile da figlia dei fiori di cui Carla mantiene più l’involucro che non lo stile di vita – niente comune, niente sostanze psicotrope illegali, niente amore libero – e la condivisione di alcuni valori – il rifiuto del sistema, la lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni, la solidarietà verso il prossimo, la difesa della libertà e di tutti i diritti e dei diritti di tutti.
Un po’ moderna Venere, un po’ hippy irrisolta, Carla è un’ex giornalista perennemente votata a offrire il suo modesto contributo per illuminare il pianeta, contributo che si traduce in una precisa missione/ossessione: «riabilitare i personaggi, più o meno celebri, dimenticati, sottoposti a censura, sepolti dal silenzio, cancellati o ridotti al nulla […] restituire dignità, onorabilità e reputazione a coloro che sono stati condannati alla damnatio memoriae».
Il gemello analitico e maturo, quello goffo e sensibile
Lasciata dal marito quando era incinta di sette mesi, è anche madre di una tanto strampalata quanto perfetta coppia di gemelli senza nome, i quali, nonostante condividano lo stesso patrimonio genetico, sembrano provenire da pianeti differenti. Il gemello uno, primo secondo l’ordine di nascita, è un bambino P, ovvero un bambino prodigio, dotato di uno stupefacente potenziale cognitivo e di un incalcolabile numero di connessioni neurali «in grado di risolvere equazioni differenziali lineari omogenee del secondo ordine a coefficienti costanti o confutare il teorema di Fermat». Maturo, profondo, estroverso, il gemello uno possiede anche uno spiccato senso dell’umorismo.
Il gemello due, invece, “sembra scemo”: pasticcia con le parole esprimendosi in maniera goffa, elementare e sgrammaticata, non riesce a stare attento, non distingue i fatti rilevanti da quelli che non lo sono, si rapporta agli altri e alle cose che sperimenta in maniera non convenzionale e fantasiosa – parla con gli alberi, colleziona stelle, tanto per fare qualche esempio – eppure anche lui possiede doti fuori dal comune. Simpaticissimo, curioso, sensibile, tenace, buono, affettuoso, il gemello due riesce a cogliere la bellezza dei dettagli e delle sfumature e sa come non far annoiare i suoi interlocutori, costantemente impegnati a indovinare i lemmi esatti cui lui si riferisce e che ricostruisce attraverso brillanti ed esilaranti perifrasi. Studiatamente ingenua, la sua lettura del mondo, per quanto trasformata dal filtro della sua fantasiosa creatività, è, contrariamente a quello che una lettura superficiale potrebbe fare credere, ricchissima di riferimenti reali, concreti e riconoscibili, che tra l’altro il gemello due è capace di associare e interconnettere in maniera brillante anche quando questi appaiono disconnessi gli uni dagli altri. Detto altrimenti, il gemello due è capace di leggere attraverso le cose del mondo, specie attraverso quelle più misteriose, di trovare soluzioni originali ai problemi che sembrano senza via d’uscita, a buttare il cuore oltre l’ostacolo con una naturale incoscienza che bilancia perfettamente il carattere scientemente analitico del fratello.
Devo ammettere che da psicologa sono stata tentata dall’azzardare una diagnosi esplicita sul gemello due, ma poi mi son detta che questo avrebbe finito per incasellare, etichettare, tradire lo spirito poliedrico e anticonformista che l’autore mi è parso volesse imprimere alla sua opera. Così ho felicemente desistito.
Un’Europa di stati e staterelli
Tornando al nostro libro, Carla e i suoi figli vivono su un vecchio scuolabus di dubbia provenienza targato Zagabria e trasformato in un camper con cui, in un tempo pasticciato e indefinito – siamo, verosimilmente, alla fine del secolo scorso, anche se del passato, presente e futuro vengono deliberatamente mescolati – attraversano le strade di un’Europa mosaicizzata in una miriade di stati e staterelli che ricordano quelli di qualche secolo fa – regni, principati, granducati… – tuttavia separati da attualissimi dogane, muri e cortine di filo spinato. Persino lo Stato Pontificio, guidato dal papa guerriero Lucio IV – impossibile non cogliere il riferimento alla bolla di Ruscigli emanata da Lucio III – è animato da feroci mire espansionistiche.
Quando incontriamo Carla&co., li troviamo impegnati a ricomporre vita e opere del fantomatico Signor Emme, personaggio in vista del Novecento italiano di cui non sanno nulla – hanno in mano solo una breve lettera d’amore scritta cinquant’anni prima – ed altrimenti destinato all’oblio. Scopo ultimo del loro viaggio è raccogliere quanti più reperti possibili sul Signor Emme per produrre, infine, un fascicolo dettagliato da consegnare al giudizio dell’oscura Congregazione dell’Indice delle vite cancellate e delle opere proibite.
Giordano Bruno e Ghitta Carell
Ma, come accennavo poco fa, Carla e i suoi ragazzi non sono soli in quest’impresa. Ad accompagnarli c’è anche un amico speciale della giornalista, anzi, il suo miglior amico: niente meno che un redivivo Giordano Bruno! Zio Giordano – come affettuosamente lo chiamano i gemelli – è un ex frate domenicano arso stato vivo a Campo de’ Fiori e ora diventato gnostico e anticlericale, nonostante vesta ancora tonaca, scapolare, cappa e mantello e parli in continuazione di Dio. Ha un pessimo carattere – «non che non sia una brava persona […] è sgarbato, sospettoso, severo e sempre serio […] ha l’aria perennemente triste […]» – ma è comunque «un uomo saggio, colto e onesto, un fine pensatore» – usa una lingua aulica, ben costruita, ricalcata sulla prosa del filosofo campano in aspetti quali, ad esempio, l’uso delle d eufoniche o i riferimenti in latino – e soprattutto è «un vero amico e un ottimo copilota».
Se vi state chiedendo come sia possibile un simile fatto, ovvero che un uomo arso vivo viva ancora, l’unica risposta plausibile è che state sbagliando domanda o che io non sia riuscita a farvi entrare nel mood di Roscia. Quindi, provo a rincarare la dose e vi informo che anche la fotografa Ghitta Carell è ancora in vita; tanto in vita che i nostri protagonisti la raggiungono in una casa di riposo, la Maison des Babayagas, che ospita anziane arzille, tutte femministe dal passato avventuroso e che non può non ricordarci Pinkola Estès.
Completa la stramba comitiva Buf, acronimo di Betaidrossibetametilbutirrato Uretanopolibenzenecloroamminometacrilato Formaldeidetetrametilamidofluorimum. Buf è una massa gelatinosa di un colore tra il rosa caldo e l’arancio, un composto chimico dalla formula assai complessa e particolarmente delicata e instabile. Buf vive dentro una beuta e ha la funzione di “scatola nera”: in pratica registra e cataloga tutti i reperti sul Signor Emme che la compagnia va rintracciando nel suo errare vagabondo. Buf chiaramente non parla la lingua degli umani, ma sa comunicare. Come? Forse sarebbe meglio chiedersi con chi. Ebbene, l’unico a comprendere questo essere unico è il gemello due, che tra l’altro è anche quello che lo trova tra le macerie fumanti di uno stabilimento industriale.
Questo poliedro di personaggi Roscia è molto abile nel convertirlo anche in una polifonia narrativa nella misura in cui sceglie di far narrare gli eventi cambiando, di capitolo in capitolo, il vertice narrativo assegnato ora al gemello uno, cui Roscia affida i riferimenti colti, le citazioni di una certa levatura, attribuendovi uno stile linguistico aulico e raffinato, ora al gemello due, candido portatore di una visione alternativa e spassosa del mondo, tuttavia l’unica decisiva a sciogliere stalli ed empasse; ora a Buf che, oltre al compito di catalogare tutti i reperti sul Signor Emme, è anche l’occhio esterno deputato a presentarci i tratti salienti dei suoi compagni di viaggio.
Quell’intellettuale dimenticato
Roscia confeziona, dunque, un romanzo alternativo, pittoresco, eclettico, ironico, colto, libero da etichette, dal ritmo accattivante e apparentemente poco impegnativo, in realtà – lo dicevo all’inizio – frutto di lunghe giornate trascorse a cercare, studiare, leggere, annotare, approfondire, catalogare vita, opere, documenti del “vero” Signor Emme, alias Paolo Monelli (1891-1984).
Intellettuale proteiforme – giornalista, scrittore e gastronomo – definito dal New York Times «per mezzo secolo uno dei giornalisti più illustri e dei romanzieri più famosi d’Italia», eppure svanito della memoria collettiva, Monelli rappresenta per Roscia il “dannato ideale” da riscoprire, riabilitare, glorificare, impastandolo comunque con la fantasia.
Il messaggio che ne viene fuori è tanto chiaro quanto antico: nessuno vuole essere dimenticato e per questo tutti ci impegniamo a lasciare tracce evidenti, del nostro passaggio in questo mondo, non sempre consci che probabilmente la nostra “salvezza” risiede nella sensibilità di chi questi nostri segnali li sa cogliere e custodire, spiriti semplici per lo più, ancora capaci di custodire la purezza dei legami e l’altruismo della verità.
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