Area 22. Sacks e l’invito alla solidarietà umana

“Moralità” è l’ultimo libro di Jonathan Sacks – filosofo e già rabbino capo del Commonwealth – pubblicato poco prima di morire: un atto di amore, di amore che non risparmia nessuno, a cominciare dai tanti vitelli dorati che gravano sull’anima della cultura occidentale; un invito a compiere il salto evolutivo tra un “Io” primitivo, incapace di realizzarsi, ed un “Noi” evoluto, capace di portare a compimento l’opera della Creazione

 

Certe opere, certi testi, portano in sé quasi una somma ricapitolazione; e questa appare tanto più grande quanto minimo appariva, fin dalle sue origini, il tentativo di farne una parola definitiva.

La morte, odiata nemica del genere umano, talvolta – però – col suo soffio invisibile consacra all’immortalità pagine che magari, quando furono scritte, non volevano ancora comunicare nulla di così epigrafico da diventare… lapidario.

Ma ne siamo davvero certi?

Siamo così sicuri che certe “immortalità” dipendano solo dal fato? Ed è morale, da parte del mondo della cultura, avallare che un accadimento biologico come la morte possa bastare a rendere immortale un autore, un libro, e migliaia di parole cha appaiono come una parola sola? Sembrerebbe ingiusto, quanto meno, conferire alla morte tutta questa importanza e questo ufficio, come se fosse stata lei a vivere una vita dietro alla spasmodica e appassionata ricerca della verità e delle sue forme! E quindi perché dovrebbe essere lei, e non piuttosto un uomo, l’artefice di tanto splendore?

 

Il sangue e l’epitaffio

Sono dell’avviso che, dovendo leggere un libro solo “per leggerlo”, così, per provarne cioè un semplice diletto da lettura, non si debba ricorrere a chissà quali ripari: un libro puoi leggerlo per il semplice fatto che ti sia capitato tra le mani; non occorre che tu ti chieda altro.

Ben diverso, sempre a mio avviso, è quando un libro devi leggerlo per recensirlo… Allora c’è il rischio che ogni informazione tangente possa condizionarti, possa diventare un filtro aggiunto a quello che ti è stato richiesto e che dovrebbe poter bastare. Personalmente, dunque, in questi casi, quando devo recensire un libro tutto faccio tranne cercare informazioni sull’autore. Potrebbe essere un tre volte Premio Nobel o, per quel che mi riguardi, il mio vicino di casa. Non farebbe alcuna differenza. Meno cose so, meglio posso “leggere per recensire”.

Ora – e a questo punto posso farlo – confesso di aver ricevuto l’ultimo libro di Jonathan Sacks senza sapere assolutamente nulla di lui. Semplicemente, non sapevo nulla di lui. Non sapevo chi fosse, cosa avesse fatto, cosa avesse scritto e quanto. Non sapevo niente. Avevo tra le mani il suo ultimo libro, a cui oggi è dedicato lo spazio di Area22: Moralità, 382 pagine al netto di apparato critico e bibliografia, 2020, in Italia tradotto da Rosanella Volponi ed edito da Giuntina, 20 euro.

Ecco. Avevo tra le mani il suo ultimo libro, e l’unica cosa che sapevo era che l’aggettivo “ultimo” non avrebbe avuto, purtroppo, solo un significato editoriale ma, ahimè, storico. Insomma, l’unica informazione che avevo dell’autore era che nel 2020 aveva pubblicato Moralità e che, il 7 novembre dello stesso anno, aveva compiuto la sua ultima ascensione, quella dove non occorre mettere piede a Gerusalemme per essere nella Terra Promessa.

Secondo voi è un’informazione tale da condizionare una lettura? Ditemi voi… In effetti, tutti dobbiamo morire. Chi ha letto I Promessi Sposi sa che Manzoni è morto (già, è proprio così), e non credo che questa informazione abbia chissà quali ricadute sul senso ultimo conferito alla lettura.

Già.

Ma con Jonathan Sacks non è stato così. Purtroppo? Per fortuna? Non lo so, e non mi interessa. Ma ciò di cui sono certo, e che costituisce il nucleo di questo tentativo di recensione, è che ogni capitolo, ogni frase, ogni parola, ogni cosa l’ho letta come se – praticamente – fosse stata l’ultima cosa detta dall’autore! Inevitabilmente, il sangue guizzante di quest’opera, complice un così breve tempo tra la pubblicazione e la morte, è rifluito dentro di me con tutta la forza di un epitaffio.

Epitaffio piuttosto lungo se si considera che il testo è diviso in cinque parti (sull’epifania simbolica di questa partizione ritorneremo dopo) più un epilogo, e che davvero viene passato in rassegna ogni aspetto della vita dell’uomo che, fin dalla prima pagina, è chiamato a scegliere tra l’Io e il Noi. Questo bivio etico, che dà ragione del senso più profondo di un titolo così scandalosamente essenziale, costituisce l’asse portante attorno al quale gravita ogni trattazione contenuta in questo testo. Ogni spiegazione, ogni aneddoto narrato, ogni memoria contenuta in questo libro, è un invito a compiere questo fondamentale salto evolutivo tra un “Io” primitivo, incapace di realizzarsi, ed un “Noi” evoluto, capace di portare a compimento l’opera della Creazione.

E anche a proposito del concetto di epitaffio… beh, tutto alla fine sembra fatto per essere riassunto in una sola parola. Ma la lasceremo alla fine, dove è giusto che stia un epitaffio.

 

Un’ultima parola

 

Piuttosto, a proposito di parole essenziali, partiamo proprio dal titolo: Moralità.

Per rendermi conto, a pelle, del coraggio di Jonathan Sacks (e dei suoi editori), ho provato a consigliare il testo qua e là, persino all’interno di un avviato gruppo di lettura. Come pensavo, davanti ad una parola così pretenziosa, così potenzialmente “moralistica” e “moraleggiante”, così “scolastica” (in senso tanto filosofico quanto accademico), così “sinagogale” o “ecclesiastica”, così passibile di lunghissimi pipponi paternalistici o – peggio – omiletici, la fuga è stata pressoché unanime ed omnidirezionale.

Avrei dovuto avermene, e invece mi sono scoperto a farci su una bella risata. Una risata di apprezzamento e di stupore davanti non solo a tanto coraggio ma, anche, all’eventualità che questo titolo fosse giustificato proprio dalla pretesa d’essere, e di voler essere, un’ultima parola!

Chi, nell’ultimo istante, prima di pronunciare la sua ultima parola, si chiederebbe quali difficoltà di pubblicazione e di vendita potrebbe incontrare? Nessuno. La pronuncerebbe e basta. E così ha fatto Sacks. E questa suggestione di spiegarmi il titolo come un’ultima parola è stata così forte che, se anche non avessi saputo che l’autore era passato a miglior vita, lo avrei capito da solo!

Poi, e questo è un mio pensiero postumo (post-lettura, intendo), bisogna vedere chi la pronunzia questa ultima parola… Perché mi è sembrato, da una prima stima sui numeri editoriali, che attorno al letto di Sacks ci fosse molta gente ad attendere quest’ultima parola. Intendo: il libro è stato accolto con così grande attenzione ed entusiasmo (anche al di fuori dei circoli dotti) che davvero è evidente quanto quest’uomo, docente, filosofo, rabbino e scrittore fosse amato!

Non me ne stupisco affatto. Me ne sono innamorato anch’io dopo pochissime pagine. E il punto è tutto lì: magari potessimo leggere, di ogni libro, qualche prima pagina!

Solo dopo la lettura del libro ho percorso, finalmente liberato dal mio veto metodico, l’elenco della sua bibliografia. Mi sarebbe potuta bastare per darmi una ragione della mia soddisfazione all’ultima pagina del libro. E invece no, nonostante un passato autorevole a testimoniare tanta eccellenza, le sensazioni superstiti alla lettura hanno avuto la meglio, cioè, sono bastate a sé stesse!

 

Un libro autosussistente

In altre parole, Moralità è un libro umilmente autosussistente; non ha affatto bisogno della lunga bibliografia che lo precede per essere autorevole, per farsi leggere e – soprattutto – per avere ben più che qualcosa da dire. È suntivo del pensiero complessivo e generale dell’autore, ma non ne costituisce il compendio. È chiaramente manifestativo della cultura di Sacks, delle sue competenze, della sua profondità umana ed accademica, ma non esaurisce nessuno di questi ambiti, lasciando presupporre quindi non solo un suo immenso retroterra ma, inaspettatamente, un immenso territorio ancora esplorabile! Nondimeno, essendo il suo ultimo libro, questa esplorazione sarà affar nostro e non più dell’autore il quale, lungi dall’essere morto, è piuttosto defunto: ha completato, cioè, il suo compito; e lo ha portato a compimento nel migliore dei modi: lasciando una consegna. Quindi, se la ricchezza contenuta tra queste pagine offre la possibilità di uno sguardo che sappia sporgersi oltre il monte Nebo della storia di un uomo, è contemporaneamente d’obbligo che ogni lettore si costituisca e si riconosca invitato ad essere artefice di un tale sguardo, e del cammino che ne seguirà.

In qualunque altra opera simile, forse, avrei pensato che le citazioni, i rimandi, i richiami a qualunque aspetto della cultura e della conoscenza, fossero solo ghirigori intellettualistici, elitari. Ma non he avuto sentore neppure per un attimo! Sembra, al contrario, che Sacks faccia fatica a dover dire tutte queste cose, a dover necessariamente manifestare un così alto grado di preparazione su decine e decine di categorie e orizzonti culturali; sembra di percepire a pelle che, se si fosse trattato di una chiacchierata piuttosto che di un libro, egli si sarebbe guardato bene dal mostrarsi così imbarazzatamente colto. Ma è un libro, appunto. E ciò che non diresti per non apparire grande, devi dirlo perché sai che essere scrittore è una forma di umiltà, di piccolezza, tale da dover mettere da parte ogni tentazione all’oblio di sé stessi. Sai che, proprio per una questione morale, giunge un momento – ed è questo – in cui grandezza e piccolezza devono coincidere senza che un’ombra di imbarazzo possa confonderle. In questo libro ciò appare chiaro, ovvero non si percepisce questa confusione: Sacks non si manifesta né come un grande che voglia pateticamente apparire piccolo, né – meno che mai – come un piccolo che voglia mostrarsi presuntuosamente grande. La sua umiltà e la sua sterminata preparazione diventano una cosa sola, senza ferire chi, leggendo, traccia un’inconscia misura di capacità tra il contenitore e il contenuto.

Una lettura umile

Per quale ragione, e in che modo, possiamo autenticare come umile una lettura tanto vasta? Per la semplice intenzione che ne costituisce il motore: un perenne invito alla solidarietà umana. Si percepisce letteralmente ad ogni pagina che Sacks desidera un bene infinitamente più grande rispetto all’ampiezza del suo scritto per cui, appunto, quest’ultimo gli appare e ci appare sempre troppo piccolo rispetto a ciò che può esserne tratto!

E questa intenzione, questo motore, ruggisce passione in tutte le forme possibili della comunicazione, quando sa che il desiderio di solidarietà condivisa deve davvero giungere a tutti i possibili lettori; e così troviamo sì le documentate statistiche di tutti i cambiamenti sociali e culturali, che Sacks paragona ad un preoccupante cambiamento climatico dell’Occidente, ma troviamo anche un’ampia aneddotica, sia personale, sia presa in prestito da qualcuna delle infinite fonti di riferimento a cui l’autore ha attinto; troviamo sia la massima ebraica proverbiale, vestigia sapienziale che adorna una penna già perfetta, sia pure la battuta o la barzelletta, meno proverbiale ma altrettanto sapienziale quando occorre! Si comprende che la moralità, e cioè l’esercizio libero dell’etica umana, talvolta non ha altra strada se non l’ironia per poter raggiungere un cuore. In questo senso, non solo Sacks si pone come appassionato continuatore di una dialettica biblica sempre attuale, ma anche innovatore capace di adattare l’adagio antico alle nuove forme di necessità comunicativa.

È davvero difficile capire chi potrebbe essere il destinatario ultimo di un libro come questo: un uomo religioso? Un politico? Un professore? Un filosofo? E se fosse un uomo? Già, se questo libro non avesse altri destinatari se non – appunto – gli uomini in quanto tali? Tale è la pretesa di un testo del genere! E tale pretesa può essere giustificata solo a partire da due premesse: una è la possibilità di una presunzione ipertrofica; l’altra è l’amore. Non si impiegano che poche righe a comprendere su quale delle due far pendere l’ago della bilancia.

Un amore che, proprio perché tale, non risparmia nessuno: Sacks demolisce idoli enormi e pesanti sull’anima della cultura occidentale, come il marxismo, il meccanicismo evoluzionista, il sospetto freudiano, il liberalismo democratico, la libertà di parola e persino il buonismo libertario travestito da politically correct. Nessuno di questi vitelli dorati impedisce all’autore di proporre il suo pensiero lucido e onesto, dove, pur nel rischio di passare per impopolare, egli precisa come certe istituzioni culturali ormai intoccabili, di fatto, quando non si prestano a comunicare il Vero, siano come statue che hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non sentono. E, poiché dalla loro bocca non emettono suoni, allora ci pensa lui a parlare, con l’esperienza di chi – appunto – nel pronunziare un’ultima parola, non si pone il problema di poter apparire inopportuno. Eppure, anche quando certi passaggi ti fanno rendere conto del coraggio di questo autore, la sua delicatezza e cura nel dire ogni cosa, senza voler ferire nessuno, ma dicendo a tutti ciò che pensa, si palesa con evidenza.

Dall’io al noi

E poi…

Un libro del genere, diviso in cinque parti… Per la serie: non solo i contenuti, anche la struttura è rivelatrice! Un Tritonomio, forse inconsapevole, forse inconscio, certamente devoto e innamorato. La proposta di una moralità che presupponga la Legge, riuscendo a superarla con l’unica cosa capace di superare la Legge, e cioè la sua stessa essenza: l’Amore, quell’Amore naturalmente impossibile a lasciarsi rinchiudere da un IO, e invece tutto propenso a celebrare l’unità nella molteplicità di un NOI che, di fatto, fa coincidere il fine del libro con l’insieme dei suoi lettori possibili.

Cinque parti, dove la prima (La solitudine del sé) ci mostra l’origine, il principio del problema: il dramma di un’umanità che, nonostante sia stata creata per essere comunità solidale, sceglie tantissime volte di rifugiarsi dentro il male assoluto: l’egoismo come attuazione contraria di quel “Non è bene che l’uomo sia solo!”. La seconda parte (Conseguenze: il Mercato e lo Stato) stigmatizza il viaggio della nazione umana dallo stato di soggiogamento della propria collettività all’emancipazione di un “Io” che, invece di dichiararsi responsabile, accettando la solidarietà come legge morale, finisce per autodeterminarsi come assoluto, desiderando il ritorno ad una schiavitù peggiore della prima. La terza parte (Possiamo ancora ragionare insieme?) si concentra sulla possibilità di uno “spazio condiviso”, uno spazio che sia di convegno tra le umane ragioni, così che – in luogo delle vittime e dei possibili vittimismi – si celebri il ritorno alla solidarietà come culto umano autentico ed autentica espiazione. La quarta parte (Esseri umani) rappresenta certamente la chiave di volta del libro; è da questa parte del libro che si traggono le conclusioni che condurranno alla fine: l’umanità, che staziona nel deserto della propria individualità, è chiamata all’imperativo della necessità morale, per potersi rimettere in viaggio e varcare, finalmente, il confine ultimo di sé stessa. La quinta ed ultima parte (La direzione da seguire) è la più breve e costituisce, per così dire, il discorso ultimo dell’Autore, il suo testamento spirituale consegnato praticamente a tutti! È la parte più bella e anche la più drammatica perché, più che in ogni altra parte del libro, si comprende come Sacks non sia solo un accademico, un filosofo o un capo religioso, ma soprattutto un uomo che ama gli altri uomini. Un giusto. Il suo ultimo solenne discorso apre alla necessità di un’eredità morale in cui ogni lettore, da quel momento in poi, può essere e dev’essere come Giosuè.

Commovente la prima frase dell’epilogo che, proprio dopo tutto ciò che abbiamo detto (e che non può non ricordare una ben più importante Pentalogia), ci arriva alle orecchie in questo modo: Come sarà il mondo dopo il Covid? Sembra che Sacks si chieda come sarà l’uomo dopo l’esperienza del deserto. Fortissimo l’impatto emotivo di una tale domanda, soprattutto considerando che Sacks se la ponesse davvero a poche settimane dalla sua dipartita, e che quindi non era, e non poteva essere in alcun modo, una domanda retorica.

Già, Sacks non conosceva la risposta. Noi, invece, di questa risposta saremo gli artefici.

 

Concludo spiegando per quale ragione un libro così ampio, così imponente, potrebbe essere tutto riassunto in una sola parola degna di prendersi uno spazio esiguo su una targhetta da epitaffio, la parola BENE.

Sì, Sacks avrebbe potuto intitolarlo così, e non sarebbe cambiato nulla. Anzi, probabilmente avrebbe attratto maggiormente da un punto di vista esclusivamente editoriale, avrebbe incuriosito di più, avrebbe impaurito di meno.

Ma il BENE passa dalla moralità, e Sacks non avrebbe potuto tacerlo. Non sarebbe mai evaso dalla cella di questa responsabilità, perché sennò non avrebbe insegnato nulla ai suoi nipotini. Che bello pensare che, scrivendo ognuna delle pagine di questo libro, egli abbia pensato a loro, a questi giovani che un giorno dovranno essere uomini non solo liberi, ma morali, capaci di scelte grandi! Per dire questo, Sacks ha sorseggiato la cicuta di una fatica letteraria enorme, fino a che, semplicemente, si è addormentato mostrandoci una Terra.

Per lui il mio Qaddish. Per me, e con me, il suo libro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *