Daniele Mencarelli si prende una pausa dalla narrativa e, da aspirante credente, si interroga su due vie crucis dall’epilogo diverso: il successo di un uomo d’affari e la morte per crocifissione di Gesù, una salvezza negata e una raggiunta. Il risultato è “La croce e la via”, pagine di prosa poetica e di versi
Cos’hanno in comune un anonimo manager d’assalto dei giorni nostri e il Cristo che, duemila anni fa, si avviava verso la croce? Uno il cui sfrenato individualismo, egoismo, e la cui vittoria hanno il sapore di una sconfitta e uno la cui morte e il cui dolore significa resurrezione e vita eterna, non solo per lui? La risposta è Daniele Mencarelli, con il suo ultimo libro che segue Tutto chiede salvezza, con cui lo scrittore romano (qui una sua videointervista) si è aggiudicato il premio Strega Giovani. Il nuovo titolo, che sembra un viatico per la Pasqua cristiana, è scritto da un uomo che cerca la fede, un aspirante credente, che tante domande fa e si fa, specie in molte delle cose che ha scritto. Ne La croce e la via (120 pagine, 12 euro), pubblicato dalle edizioni San Paolo con le illustrazioni di Luca Moscatelli, i lettori troveranno solo una distanza apparente dalle storie autobiografiche che Mencarelli ha offerto con La casa degli sguardi prima e con Tutto chiede salvezza poi. E che si concluderanno, in autunno, nel terzo atto di una trilogia, probabilmente intitolato Sempre tornare.
Il trionfo e una domanda che trafigge
Mencarelli (che nasce poeta e ha radunato la sua produzione nel bel volume Tempo circolare per Pequod) continua, come in tutti i suoi libri, ad andare a caccia di un significato. Mescola prosa poetica, proposta nella prima parte, e versi, nella seconda: due parti divise ciascuna in quattordici stazioni. Mencarelli (qui una sua intervista) ci presenta un individuo che ostenta quel che è e quel che ha, che cerca ammirazione e invidia, per cui «vivere è schiacciare» e che nel suo percorso umano, ma soprattutto professionale, non contempla l’eventualità di perdere: «La sconfitta non è nel mio sangue, il mio orizzonte si chiama successo». La carriera, l’apparenza, l’eleganza e la vittoria: solo questo sembra dare un senso all’uomo di affari che, pure, rischia di perdere la propria sfida con un giovane geniale e affamato di coraggio. Quando il trionfo tanto agognato arriva, però, una domanda perentoria lo trafigge: «Perché la vittoria non mi colma?».
La morte e l’approdo alla terra promessa
Le quattordici stazioni di una più tradizionale via crucis – passaggio su cui Mencarelli aveva riflettuto qualche anno fa, nelle poesie di La croce è una via – scandiscono la seconda parte del libro, che però è poesia pura e pura poesia. L’ascesa al Golgota del Cristo non è la scalata al successo del colletto bianco, ma una salita di sofferenze che serve alla redenzione. Il calvario non è un ufficio da dominare, è un viaggio di tappe di dolore per raggiungere il «regno dove nulla soffre / e a morire è solo la morte». L’approdo, però, è tutt’altro che infernale, non è il vuoto inasensato della prima parte, è il raggiungimento di una terra promessa, la salvezza per utilizzare un termine caro all’autore. «Io sono qui che ti attendo / sorgerà presto un nuovo giorno».
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