“Le morte” di Jorge Ibargüengoitia, un estratto

Torna oggi in libreria, grazie alla casa editrice La Nuova Frontiera, il romanzo “Le morte” di Jorge Ibargüengoitia (1928-1983), capolavoro di uno dei maggiori scrittori messicani, pubblicato originariamente da Ibargüengoitia nel 1977, ispirato a un reale episodio di cronaca nera. Protagoniste di questa macabra storia due sorelle, Serafina e Arcángela, tenutarie di una casa d’appuntamenti, in cui si susseguono tragici episodi. Per gentile concessione dell’editore vi proponiamo il primo capitolo del libro tradotto magistralmente da Angelo Morino.

CAPITOLO PRIMO

Le due vendette

1

È possibile immaginarli: tutti e quattro portano occhiali scuri, l’Escalera guida curvo sul volante, accanto a lui c’è il Prode Nicolás che legge un giornaletto, sul sedile posteriore, la donna guarda dal finestrino e il capitano Bedoya dormicchia ciondolando il capo.

L’auto blu cobalto sale stracca su per il dosso del Perro. È una soleggiata mattina di gennaio. Non si vede una nuvola. Il fumo delle case galleggia sulla pianura. La strada è lunga, all’inizio dritta, ma passato il dosso serpeggia per la sierra di Güemes, tra i fichi d’India.

L’Escalera ferma l’auto a San Andrés, si accorge che gli altri tre si sono addormentati, sveglia la padrona affinché paghi la benzina, ed entra nella trattoria. Mangia ciccioli in umido, fagioli e un uovo. Mentre sta bevendo la seconda tazza di caffè entrano gli altri nella trattoria, assonnati. Li guarda con compassione: quello che per lui è l’inizio della giornata è per gli altri la fine della baldoria. Loro si siedono. Il capitano si muove con cautela, domanda alla cameriera:

«Cos’avete che stuzzichi l’appetito?»

L’Escalera si alza, esce in strada e fa un giro per la piazza con le mani in tasca, il passo lungo e molto lento e uno stuzzicadenti fra le labbra. Si abbottona la giubba, perché nonostante brilli il sole, soffia un venticello gelido. Si ferma a guardare un gruppo di lustrascarpe che lanciano monete contro un muro in un gioco del mondo diverso da quello che conosce lui. Riprende la passeggiata domandandosi se gli abitanti di Mezcala sono più rozzi di quelli del Plan de Abajo. Si ferma ancora un momento a leggere la scritta che c’è sul monumento ai Bambini Eroi – “Gloria a coloro che morirono per la Patria” – e vede uscire dalla trattoria i suoi tre passeggeri – “il carico”, nel linguaggio degli autisti: il capitano e il Prode in abiti borghesi che conservano tracce dell’uniforme, come la camicia verde oliva del secondo e gli stivali da cavallerizzo del primo, e Serafina, vestita di nero stropicciato, che scopre la gamba bruna e mostra l’ascella mentre sale in auto. Una volta che si sono accomodati tutti e tre, suonano perentoriamente il clacson affinché l’autista prenda posto al volante.

Continuano per la loro strada attraverso località famose: per Aquisgrán el Alto – “Signor presidente, ci hanno rubato l’acqua”, dice un cartello all’entrata – dove a Serafina viene voglia di una bibita –, per Jarápato, dove l’Escalera fa una sosta per lasciare un peso nel salvadanaio di una chiesa che viene costruita con elemosine degli autisti, per Ajiles dove comprano un po’ di formaggio; passando davanti al colle del Cazahuate, il capitano chiede che l’auto si fermi per scendere a orinare – “buttar giù una firma” dice –, e a San Juan del Camino, che possiede una madonna miracolosa, si fermano a riposare.

Serafina entra nel santuario (si è poi saputo che accese una candela, implorò in ginocchio alla Vergine un buon esito per l’impresa e in ringraziamento anticipato piantò sul velluto rosso un ex voto d’argento a forma di cuore, come se gliel’avesse già concesso). Nel frattempo i tre uomini si siedono a un tavolo della gelateria, ordinano sorbetti, discutono e decidono che quanto intendono sbrigare lo si sbriga con maggiore facilità alla luce del giorno. Allorché Serafina, che esce dal santuario, li raggiunge, non è d’accordo e ordina che l’impresa venga svolta di notte.

Questo significa che devono aspettare tre ore, che passano addormentati sotto una pianta di zapote all’uscita da Jalcingo. Il sole sta calando quando i cani del Salto de la Tuxpana cominciano a latrare dietro di loro. È un paese largo e scuro dalle vie polverose, con un lampione elettrico ogni duecento metri. Ha fama di avere in ogni casa un giardino di guaiave, ma le porte sono chiuse. I bambini giocano in strada.

L’Escalera ferma l’auto a una cantonata, dove, sotto un lampione, c’è un gruppo che sta mangiando pozole*. Il Prode Nicolás scende, si avvicina al crocchio, che resta a guardarlo, e parla alla venditrice di pozole:

«Mi scusi se la disturbo. Dov’è una panetteria?» Lei risponde che in paese ce ne sono tre e gliele indica. Vanno in auto da una parte all’altra del paese e di panetteria in panetteria senza trovare quella che cercano fino alla terza.

«Sembra che sia questa» dice il Prode, che è sceso due volte e ha comprato due sacchetti di pagnottelle dolci.

Scendono tutti. I tre uomini si dirigono verso il bagagliaio, Serafina verso la panetteria. È una casa modesta, con le uniche due porte aperte che ci sono lungo l’isolato. Avvicinandosi con cautela, attenta a non farsi vedere, Serafina guarda nell’interno e vede, dietro il banco, un uomo seduto e una donna che fa i conti. Torna all’auto. L’Escalera, con una canna e molta calma, estrae benzina dal serbatoio per riempirne una latta, il capitano e il Prode hanno preso dal bagagliaio due fucili automatici e inseriscono i caricatori e tolgono le sicure – facendo piuttosto rumore – per controllare che fun-zionino. Il capitano consegna a Serafina la pistola.

Quello che poi succede è confuso. Il Prode si piazza sulla soglia di una delle porte e Serafina su quella dell’altra. Lei dice all’uomo che sta dietro il banco:

«Non ti ricordi più di me, Simón Corona? Prendi, così te ne ricorderai.»

Spara mirando in alto. Quando la scarica finisce l’uomo e la donna sono sotto il banco. Il Prode spara una raffica verso l’interno della panetteria. Dice al capitano, che gli sta accanto:

«Spari anche lei, signor capitano.» «No. Qui io faccio solo da palo.» Ha il fucile puntato verso l’altro marciapiede, qualora ci fosse un attacco di spalle.
L’ultima parte del piano la esegue il Prode. Consiste nell’entrare dentro la panetteria, spargere di benzina il pavimento, uscire, accendere un fiammifero e gettarlo sul pavimento bagnato. La benzina divampa con un’esplosione sorda, le fiamme escono dalle porte. Serafina, che si avvia verso l’auto, scosta alcune donne che stavano andando a comprare il pane e contemplano affascinate l’incendio, dicendo loro

«Andatevene! Cosa venite a guardare? Non sono fatti vostri!»

Quando tutti e quattro hanno raggiunto l’auto, l’Escalera fa, per girare, una manovra più complicata del solito, poi accelera e l’auto si muove lungo le vie del paese indecisa per un momento prima di trovare l’uscita e infine si allontana dal Salto de la Tuxpana nello stesso modo in cui ci era entrata, fra i latrati dei cani.

2

I danni causati dall’incendio ammontarono a tremilacinquecento pesos. La polizia rintracciò per terra quarantotto bossoli del calibro di ordinanza. Tutte le pallottole colpirono la parete. Una colpì di striscio la spalla e il braccio destro della signorina Eufemia Aldaco, che si trovava nella panetteria, causandole escoriazioni. Il panettiere Simón Corona e la sua commessa, la signorina Aldaco, che erano le uniche persone a trovarsi nella panetteria al momento dell’incidente, riportarono ustioni non letali.

Il giudice istruttore arrivò alle otto e mezza al Pronto Soccorso dove venivano medicate le vittime e domandò al dottore se i feriti erano in condizioni di essere interrogati, al che il dottore rispose che alla donna erano stati somministrati sedativi, ma che l’uomo era in sé. Il giudice entrò nella stanza dove si trovava Simón Corona bendato e disteso sul letto e gli rivolse le domande.

Come si era svolto il fatto?

Risposta: Lui stava seduto dietro il banco in attesa che la signorina Aldaco facesse il conto di quello che si era venduto nella giornata quando aveva sentito una voce che gli diceva: “non ti ricordi più di me…?” ecc.

Nutriva sospetti su una o più persone che fossero gli artefici dell’aggressione?

R.: Non nutriva sospetti, ma aveva la sicurezza, perché se l’era vista davanti con una pistola in mano, che la responsabile dell’aggressione era la signora Serafina Baladro, residente in… qui figura un indirizzo della città di Pedrones, Stato del Plan de Abajo.

Quale poteva essere il motivo per cui la suddetta signora… ecc.?

R.: Si vergognava a confessarlo, ma in passato aveva vissuto in diversi periodi con la signora Baladro – “certe volte stavamo insieme e certe altre ci separavamo, perché lei aveva un carattere molto difficile” –, finché non l’aveva abbandonata definitivamente durante un viaggio che avevano fatto insieme ad Acapulco, in quanto allora aveva capito che lei non era degna del suo amore. Questo abbandono aveva fatto nascere in lei un rancore così grande che l’aveva indotta a cercarlo per tre anni senza trovarlo.

Sapeva chi erano gli altri aggressori?

R.: No, ma poteva descriverne uno in quanto l’aveva visto da vicino, quando gli aveva venduto delle pagnottelle dolci pochi momenti prima dell’incidente – “non era né alto né basso, né giovane né vecchio”.

Aveva idea di come si fossero procurati gli aggressori il fucile automatico di ordinanza e la pistola calibro 45?

R.: No, ma aveva avuto occasione di constatare, nel periodo in cui avevano vissuto insieme, che Serafina Baladro aveva sempre intrattenuto rapporti con la polizia federale.

Preso nota della dichiarazione, redatto e firmato il verbale, il giudice seguì la solita trafila, che consisteva nel fare rapporto ai suoi superiori, indicare la presunta responsabile e chiedere al procuratore dello Stato di Mezcala che chiedesse al procuratore dello Stato del Plan de Abajo che chiedesse al giudice istruttore di Pedrones che chiedesse al comandante della polizia del suddetto paese, di arrestare la signora Serafina Baladro affinché rispondesse alle accuse rivolte.

Passarono quindici giorni. Gli abitanti del Salto de la Tuxpana cominciavano a dimenticarsi della sparatoria quando il giudice ricevette il seguente telegramma:

“Interroghi di nuovo il teste e indaghi se in compagnia dell’accusata Serafina Baladro portò a termine nel 1960 un’inumazione clandestina”.

Durante il secondo incontro col giudice istruttore, Simón Corona volle, prima di essere interrogato, che gli venissero spiegate diverse cose: era obbligatorio o facoltativo rispondere alla domanda postagli – “lei si trova qui di sua spontanea volontà o perché costretto?”, “di mia spontanea volontà”, “allora è facoltativo” –, se Serafina Baladro era stata arrestata – “qui dice accusata, poi agli arresti o sul punto di esserlo” –, se la sentenza che le avrebbero emesso contro sarebbe stata più grave se lui rispondeva affermativamente alla domanda postagli – “è molto probabile di sì”. Soddisfatto di queste risposte, Simón Corona raccontò al giudice istruttore il caso di Ernestina, Helda o Elena. Il giudice lesse il verbale redatto, il teste non fece obiezioni a quanto ivi contenuto e firmò in calce consenziente. Questa firma gli costò sei anni di carcere.

 

* Il pozole è un piatto a base di carne di maiale e peperoni.

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