“Non ci capisco niente” raccoglie lettere giovanili di un Cesare Pavese ancora in costruzione – sincero, fragile, spontaneo – con una vibrante voglia di esprimersi attraverso la scrittura, non ancora fagocitato dal suo buio
La collana dei “pacchetti” di L’Orma editore si arricchisce nel 2021 di un nuovo e prezioso libricino alla scoperta di uno dei più noti autori della lettura italiana del Novecento. Si intitola Non ci capisco niente (64 pagine, 7 euro), è curato da Federico Musardo, ed è una raccolta di lettere scritte tra gli anni Venti e Trenta da Cesare Pavese, giovanissimo liceale e poi scrittore in erba, fino alla soglia del mondo degli adulti, sancita dall’ultima lettera datata gennaio 1936, quella dove allo scrittore arriva tra le mani la prima copia di Lavorare stanca. Un ritratto fresco, vivacissimo, inedito, che restituisce un Pavese in piena ricerca di sé, ancora non immobilizzato e fagocitato dai suoi freni, dal suo buio.
Ogni lettera, o gruppo di lettere, è introdotta da una piccola spiegazione del curatore che ne ricostruisce il contesto, dal periodo della scuola, agli esami, fino al confino dell’autore a Brancaleone Calabro negli anni Trenta, tra Torino e frequenti ritorni nelle Langhe. Nel cuore del libro, qualche foto d’epoca ritrae l’autore con gli interlocutori evocati nelle lettere, dando alle parole vibranti di Pavese dei volti.
“Il fondo intimo della mia anima”
L’adolescenza, è noto, è un’età di contrasti. Il Pavese diciassettenne che inaugura il percorso epistolare di Non ci capisco niente è un gomitolo di contrasti vivissimi che restituiscono tutta la vita di un giovane autore, già consapevole del ruolo centrale che la scrittura avrebbe avuto nel corso della sua crescita, della sua vita. Pavese scrive dei suoi tentativi di scrittura, condivide prove di poesia, le “bombe”, come le chiama colpito dal loro “fragore” simbolico.
Fanno sorridere gli entusiasmi di questo ragazzo tutti tesi alla scrittura, coinvolgono per la loro sincerità, la loro spontaneità. Lo fanno anche quando si invertono, e da voglia di vivere si trasformano in ombre, autocommiserazione e fragilità. Sono i momenti di avvilimento tipici di un adolescente, forse, ma in cui si intravede un Pavese già consapevole dei propri contrasti interiori, dall’esaltante spirito di conquista artistica ai periodi neri, alle ferite e ai burroni dentro cui cercare di non sprofondare, legando nel modo indissolubile – che sappiamo e scopriremo leggendo l’epistolario – vita e scrittura, come una cosa sola.
E poi c’è l’ironia, l’autoironia con cui lo scrittore in erba si descrive, a volte si accusa, altre si proietta nel futuro. E lo fa con un certo grado di visionarietà, come quella grazie a cui nel 1926 lo si legge scrivere con toni divertiti all’amico dal paese natale, dove si trova “in quella tal casa, che voglio morire se fra cent’anni non sarà monumento nazionale. Ci sono nato io, oh!”. Emblematica la nota del curatore che ricorda come effettivamente, da qualche anno, la casa di Pavese sia inserita in un circuito di luoghi legati allo scrittore e alle suo opere gestito e curato dalla Fondazione Cesare Pavese.
A chi scriveva Pavese
A chi sono rivolte le lettere di Pavese custodite in Non ci capisco niente? Mario Sturani e Tullio Pinelli, innanzitutto, compagni di scuola e amici con velleità artistiche simili a quelle del futuro autore. Per questo motivo Pavese scambia con loro scritti e poesie chiedendo pareri e confronti, spesso cercando critiche. È molto profondo anche lo scambio con Augusto Monti, maestro e figura imprescindibile della sua formazione di giovane intellettuale. Insegnante al Liceo D’Azeglio, Monti fu colui che, come dice il giovane Pavese, aveva «insegnato a leggere» a lui e agli altri componenti di quel gruppo speciale formato da Massimo Mila, Norberto Bobbio, Leone Ginzburg e Giulio Einaudi, autentica classe intellettuale democratica da cui nascerà l’esperienza irripetibile della casa editrice Einaudi.
Monti era più di un professore, quasi un confidente a cui portare rispetto senza tuttavia negarsi la possibilità di dibattiti anche vivaci, commenti e critiche al reciproco pensiero e lavoro. Fa sorridere la sincerità delle parole e dei toni usati da Pavese nelle lettere rivolte al suo maestro: vi si legge il ragazzo smanioso di imparare, di conoscere il mondo, di raccontarsi nella scoperta di sé e della propria anima artistica.
Le emozioni tornano anche nella lettera ad Alberto Carocci che chiude la selezione. Fondatore di Solaria e primo editore di Lavorare stanca, Carocci riceve le parole intense di un giovane autore a confronto con il proprio lavoro stampato e rilegato, felice e tuttavia sempre puntiglioso nell’individuare refusi da sistemare.
Tra libri e scrittura
Leggendo le lettere del giovane Pavese ci si sposta tra le Langhe e Torino, tra la campagna e la città, dolente la prima, vuota e detestabile per un adolescente in estati che descrive come vuote, mentre guarda invece con entusiasmo alla città piena di vita. Una vita che, lo si vede chiaramente già dagli anni Venti e dalle parole di Pavese, sarà interamente connessa ai libri, alla scrittura. Da lì arrivano gli slanci, da lì i rovelli: è nella scrittura il mondo di Pavese, con tutti i suoi miti pronti a tornare coerenti di pagina in pagina nella ricerca incessante che ben evidenzia il curatore di questo epistolario. “Ma alla fin fine, se lo debbo dire, io penso che a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri”, scrive lo stesso Pavese, confermando il suo sguardo consapevole anche mentre si rilegge e individua nei propri movimenti e scelte una “ricerca disperata di costruzione, di romanzo, di letteratura”.
Il rovello lascia il posto al lavoro, al suo felice esito che arriva in un momento particolarmente difficile: Carocci invia il primo libro a Pavese durante il confino. È il gennaio 1936 e queste sono le parole di Pavese: «Lacrime, tripudio, auspici, bicchierata: tutto da solo». Sembra la voce modernissima di un giovane scrittore di un 2021 di nuovi confinamenti, smanioso e al tempo stesso forse un po’ insicuro nell’affacciarsi a un mondo nuovo. Eccola, la vitalità del Pavese fotografato da questo prezioso libretto: un brillio di sguardi riflesso nelle parole di scambi epistolari finora poco noti. Un guizzo, quel tanto che basta a immaginarlo ventenne, carico di aspettative che una vita piena di conflitti interiori gli avrebbe ritorto contro.
Le parole di Calvino
Limpide le parole di Calvino scritte in occasione del decimo anniversario dalla morte dello scrittore e amico. Parole riportate nell’introduzione di Non ci capisco niente che oggi si incastrano negli occhi del lettore con tutto il destino di Pavese, scrittore e uomo: un nodo impossibile da sciogliere, ma da accettare leggendo e rileggendo la sua opera, scusando la fragilità dell’uomo («perdoniamo Pavese», esortava nel suo A Torino con Cesare Pavese Pierluigi Vaccaneo) e lasciando vivere lo scrittore.
«La sua presenza – scriveva con la sua consueta capacità visionaria Calvino – tornerà a farsi sentire tra non molto attraverso lo schermo dell’allontanamento prospettivo dell’epoca, e questo basterà a riproporcelo in una nuova vicinanza, e vi potremo vedere più cose, come sempre quando riusciamo a riaccostare un autore staccandolo dalla contemporaneità, illuminandolo con la luce di un tempo che è stato ma non è già più il nostro». È proprio quanto riesce a fare questa piccola selezione di lettere, bellissima e potente nel condurci al cospetto di un Pavese ancora in costruzione, con orizzonti ancora da scoprire, con una vibrante voglia di esprimersi attraverso la scrittura, e di lavorarla, trovandosi e dando forma alla propria identità di giovane uomo.