C’è una lettera che invita alla verità, anche se fa male, ed è un po’ il nucleo di “Caro Michele” di Natalia Ginzburg. Protagonisti una madre e un figlio, una famiglia senza lessico… famigliare
C’è una lettera che parla al cuore di chi legge. Che ci mette faccia a faccia con una verità a cui non possiamo sottrarci: non sappiamo comunicare. Non sappiamo dirci le parole più vere, autentiche e necessarie – e spesso per questo dolorose. Perché preferiamo trincerarci dietro frasi di circostanza, calma apparente, finti equilibri che celano lastre di vetro troppo fragili, pronte a rompersi del tutto.
C’è una lettera che è un monologo, ma allo stesso tempo il tentativo di un dialogo con chi, quel confronto, non lo vuole più. Con chi fugge.
Vince chi fugge. Ma cosa vince, chi fugge? Il non-dolore, di certo.
Ma c’è una lettera in cui, chi la scrive, è disposta ad accettarlo, questo dolore e finalmente ad affrontarlo.
Un giovane e sua madre
La lettera si trova all’interno del romanzo epistolare Caro Michele (186 pagine, 11 euro) di Natalia Ginzburg, pubblicato da Einaudi. Una raccolta di lettere, appunto, che un nucleo familiare scambia per aggiornarsi soprattutto sulle vicissitudini di Michele. Di lui, giovane dalla vita misteriosa, la madre ha raramente notizie. E, soprattutto, ha raramente notizie dirette.
Sullo sfondo degli anni di piombo e di un conflitto generazionale forse senza precedenti, Ginzburg intreccia vite e vissuti di una famiglia che sembra aver smarrito quel Lessico Famigliare a cui lei aveva anche dedicato un suo intenso romanzo. Perché Lessico Famigliare è la narrazione che l’autrice ci offre della propria famiglia attraverso parole, modi di dire, espressioni, esclamazioni.
La famiglia con una lingua
«Noi siamo cinque fratelli – scrive Ginzburg – Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiri-babilonesi, testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti piú diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: “Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!»
La famiglia senza una lingua
Ma la famiglia di Caro Michele sembra aver perso – anzi, non avere mai avuto – un proprio “latino”. Invece di affrontare i fatti, i confronti e il dolore, la famiglia del romanzo si cela dietro un silenzio da cui lascia passare solamente le informazioni essenziali, e solamente tramite la scrittura, la formalità di una lettera, il freddo di una parola non pronunciata, senza suono e senza melodia.
Ma c’è una lettera, in questo libro, che sfonda finalmente quel vetro così sottile e fragile ed è un’esplosione, un’eruzione inattesa. Ma essenziale.
L’autrice della lettera, la madre di Michele, attende il figlio per le festività di Pasqua ma scopre che lui ha cambiato programmi e non la raggiungerà.
Eppure, gli asciugamani nuovi sono appesi nel bagno per gli ospiti. E anche i letti per gli ospiti sono già stati fatti.
Casa in ordine e cuore in disordine
No, scrive la madre al figlio, non disfarà il tutto. Tutto resterà così, anche se il figlio non verrà.
Lei è cosciente, dice al figlio, di essere una donna con la casa in ordine ma con il cuore in disordine. Ma pur di vederlo, per non mettere sotto sopra la vita del figlio, è disposta a partire, a raggiungerlo, e ad alloggiare in un albergo.
Per non disturbare. È meglio così, scrive.
E poi, in conclusione, il ricordo di quella giornata: l’ultima in cui madre e figlio si sono incontrati.
Lui apriva tutti gli armadi, ricorda la madre, perché cercava un tappeto da portare nella sua casa. Ma lei lo seguiva, rimproverandolo, perché stava mettendo sotto sopra tutti gli scaffali.
Ma lei era veramente arrabbiata? E lui, voleva veramente farla arrabbiare, mentre cercava il tappeto e seminava disordine?
La verità, anche se fa male
Purtroppo è raro riconoscere i momenti felici mentre li stiamo vivendo. Noi li riconosciamo, di solito, solo a distanza di tempo. La felicità era per me protestare e per te frugare nei miei armadi. Ma devo anche dire che abbiamo perduto quel giorno un tempo prezioso. Avremmo potuto metterci seduti e interrogarci vicendevolmente su cose essenziali. Saremmo stati probabilmente meno felici, anzi saremmo stati forse infelicissimi. Però io adesso mi ricorderei quel giorno non come un vago giorno felice ma come un giorno veritiero ed essenziale per me e per te, destinato a illuminare la tua e la mia persona, che sempre si sono scambiate parole di natura deteriore, non mai parole chiare e necessarie ma invece parole grigie, bonarie, fluttuanti e inutili.
C’è una lettera, quindi, che ci invita a non perdere tempo e a dirle, quelle parole che teniamo legate al fondo della gola, che blocchiamo sul nascere.
C’è una lettera che ci invita alla verità. Anche se fa male.
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