Un padre mai conosciuto, immaginato, accusato e perdonato. Suo padre. Lo ritrae Laura Forti nel suo secondo romanzo, “Forse mio padre”. Materiale narrativo esplosivo, la storia di un fantasma, per volere della madre (passata attraversa persecuzioni razziali, sionismo e infelicità), che però riesce a lasciare un’eredità di delicatezza…
Con sgomento mi accorgo che di questo libro non si è poi scritto più di tanto. Tanto più che si tratta di un’opera seconda successiva a un debutto nel romanzo (L’acrobata, ne abbiamo scritto qui) che aveva suscitato diffusa ammirazione. La stampa nazionale, i siti di grido di approfondimento culturale, le riviste specializzate, di carta e non, non hanno pienamente compreso la portata di un libro che, invece, è materiale narrativo esplosivo. Faticosamente in Forse mio padre (159 pagine, 15 euro), pubblicato dalla casa editrice Giuntina, Laura Forti, drammaturga di fama, fa i conti con la propria storia e identità, condanna e perdona la madre (la definisce anche «un animaletto vorace e selvatico che a volte sapeva essere cinico e crudele»), conosce, anche e soprattutto reinventandolo col scorso della letteratura, suo padre, forse suo padre.
Tema battuto, ma…
Gettando un po’ lo sguardo sugli anni recenti non sono poche le scrittrici italiane che hanno fatto i conti con la figura paterna, quasi sempre la propria. Da Rosa Matteucci (Tutta mio padre) a Marta Barone (Città sommersa), da Nadia Terranova (Gli anni al contrario) a Teresa Ciabatti (La più amata), da Carmen Pellegrino (Se mi tornassi questa sera accanto) ad Anna Giurickovic Dato (Il grande me), da Romana Petri (Le serenate del ciclone) a Rossana Campo (Dove troverete un altro padre come il mio). Non dunque un tema inesplorato, anzi probabilmente più che battuto. Laura Forti, però, scrive – rivolgendosi a lui, a una seconda persona singolare – di un padre mai conosciuto, immaginato, ricostruito, inventato, idealizzato, chiamato in causa, accusato e perdonato. E gli confessa ferite silenti e crepe dell’anima.
Dal momento che ti ho visto nella foto al cimitero ho capito che non potevo tornare indietro, dovevo andare fino in fondo. Avevi cominciato a prendere un aspetto fisico, una data di nascita e di morte, avevi un nome e anche un cognome. Lo scrivevo e riscrivevo cento volte su un foglio bianco come una ragazzina innamorata. […] Stavo raccontando un vuoto, un’assenza violenta, un odioso buco. In più a volte mi sembrava di compiere un furto. Appartenevi al mito di mia madre. Lei ti aveva portato via con sé nel buio e io ormai non potevo più raggiungerti. Poi ho capito. Non era importante che il racconto fosse perfetto, impeccabile, coerente, ma che io facessi il tentativo di dargli forma e significato.
La madre e quell’ombra…
Ritrovare il mondo ebraico
Come Dio aveva creato Adamo a sua immagine e somiglianza, [mia madre] desiderava vedere in me il riflesso di qualcosa che aveva perduto.
Un cagnolino
Ti ha illuso e manovrato perché tu continuassi a essere il suo fidanzato stampella, per risentire su si sé il tuo sguardo adorante che la riconciliava con il passato: con te era ancora sopra il cavallo bianco, galoppava in uno scenario di cartapesta verso un futuro aperto.