Un nipote sulle tracce dello zio defunto. Un viaggio allucinato in cui si intrecciano visioni di naufragi, litanie indecifrabili, sacrifici. Le pagine di “Moby Dick” come presenza costante. L’esperienza di lettura piena e appagante che regala “Nel nome del diavolo” di Lorenzo Alunni è paragonabile a pochissimi contemporanei, meno che mai esordienti
La coerenza del catalogo. La non convenzionalità. Mai nulla di scontato, mai nulla che solletichi il facile consumo. Una linea tracciata a cui la casa editrice Il Saggiatore tiene fede, stagliandosi come un unicum, ignorando mode e consorterie. Pochissime sigle in Italia si prendono il lusso di fare letteratura come Il Saggiatore, che lucida classici che non temono il tempo, Didion, Genet, Gombrowicz, che pubblica Macchia. Il romanzo dei luoghi di Esther Kinsky o La leggenda dei giocolieri di lacrime dell’ungherese László Darvasi. Scelte magari scomode, ma che costruiscono un catalogo robusto e inattaccabile, che può sfidare il tempo. Il discorso è analogo in chiave italiana, visto che Il Saggiatore non teme di lanciare nel firmamento, dove c’è già Filippo Tuena (sul nostro canale YouTube), Giancarlo Liviano D’Arcangelo (un articolo sul suo L.O.V.E.), Caterina Mazzucato (un articolo sul suo Io sono il mare), Davide Orecchio, Francesco Iannone (un articolo sul suo Arruina), Marco Lupo (sul nostro canale YouTube), Linda Barbarino (un articolo sul suo La Dragunera). Lorenzo Alunni è di questa pasta.
Quell’incontro mancato…
Alunni, antropologo e critico, debutta con un romanzo Nel nome del diavolo (253 pagine, 22 euro), che si concede il sottotitolo Fuochi, teschi e riti. Un libro con un nume tutelare, Herman Melville (ne abbiamo scritto qui), che torna a più riprese. E con un altro, Giuseppe Verdi. C’è un luogo, un teatro di Messina in cui i due si sfiorarono (dove erroneamente si tramanda che Verdi diresse il suo Macbeth, anche davanti a Melville, ma in realtà il compositore era assente…), che li accomuna, e in cui finisce l’antieroe di queste pagine. Un libro che forse definire romanzo è riduttivo, in cui il protagonista, che narra in prima persona, apprende dell’esistenza di uno zio e contemporaneamente del fatto che sia morto. Come definire la voce narrante? Ci sono poche righe che inquadrano bene il soggetto.
La ripetitività ossessiva – tutti i giorni lì, mattina e pomeriggio, nonostante gli sguardi perplessi del barista – era il mio modo per ricreare il tempo, per aggiustarlo, per riprendere il ritmo. Erano sforzi paradossali per riportare tutto nell’ordine del conforme. E io approfittavo di quei gesti insignificanti per contrastare quella sensazione che provavo ogni giorno più forte: che insignificante lo stessi diventando io.
Proprio nel bar che frequenta il giovane protagonista, melomane e con studi di antropologia alle spalle, riceve le condoglianze per la scomparsa dello zio Eugenio, ritenuto un poco di buono e nulla più da suo fratello e da sua cognata. Lo zio, si scoprirà, accumulava tantissime copie di Moby Dick, ossessionato da Melville. Aveva trascorso gli ultimi decenni di vita a Lampedusa. La scoperta innesca una sorta di inseguimento, che conduce il ragazzo nel meridione d’Italia e in particolare fra Campania e Sicilia. A cominciare dall’Isola dei migranti, lontana dall’attuale immagine figlia delle cronache, decisamente trasfigurata da cima a fondo.
Tra Lampedusa e Napoli
Un viaggio allucinato e delirante, delirante come la voce che cuce il resto del romanzo di Alunni. Pagine febbrili in cui si intrecciano visioni di naufragi, rituali sciamanici e stregoneschi, litanie indecifrabili, sacrifici, riti di rinascita dei migranti nell’Isola di Lampedusa, oscure cerimonie, per esempio in un cimitero napoletano. Un gorgo affascinante di forze oscure, in cui periodicamente ritorna Melville:
La cantilena di quello sciamano con la pagina di Moby Dick e, all’alba, un colpo di fucile e delle grida, e le donne che si precipitano fuori, che aggrediscono e scagliano pietre contro chiunque gli capiti a tiro, finché non arriva un tamburo a placarle, al suono di ritmi ossessivi che chiamano gli dei di quelle donne a calmarle, o il wolof e il frastuono dei tamburi ossessivi che porta il partecipante al rito – il malato – allo sfinimento nervoso, o all’esaltazione nervosa…
Il protagonista, che vive in un perenne stato di torpore e trance, approda a una soluzione (una soluzione?) liberatoria nelle ultimissime pagine, in cui tira fuori dallo zaino una copia consunta di Moby Dick, strappandone copertina e pagine. Mette alle spalle «giorni di increspatura del mondo» e un «lungo rituale dell’assenza», con qualche certezza:
Una vita intera in forma di rituale della memoria. Una vita come rito di passaggio per aggiustare il proprio esserci, il proprio mondo e il mondo di tutti.
Pagine ipnotiche, lettura appagante
L’esperienza di lettura che regala Nel nome del diavolo di Lorenzo Alunni è paragonabile a pochissimi contemporanei, meno che mai esordienti. E non certo perché talvolta le pagine senza punto – molte più quelle ipnotiche di quelle ridondanti – siano più di una o due di fila. Può apparire ardua, sinistra, la lettura, in certi passi più un’esperienza allucinatoria che un esercizio di conoscenza. Ma è una lettura piena, appagante, che a libro chiuso da un po’ continua a fare… effetto.
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