Giacomo Alberto Vieri, autore di “Breakfast on Tour” racconta il progetto in cui ha raccolto tante storie di migrazioni e che l’ha aiutato a riscoprire il proprio Paese e ad avere fiducia nel domani: «Sono legato a tutte le storie raccontate, è linfa che rimarrà all’Italia, una terra in cui per ignoranza ci sono tante storture, ma che ha anche tanta bellezza da donare e una società civile che in realtà fa tantissimo per gli altri, per gli stranieri, per chi è in difficoltà. Un sequel? No…»
Non solo cibo, non solo ricette, Breakfast on Tour edito da Clichy (ne abbiamo scritto qui) è una lettura scorrevole, piacevole, ma la scrittura attenta di Giacomo Alberto Vieri non nasconde l’intento: incontrare persone con il pretesto di un caffè e raccontare fatti reali, storie di migrazioni, di chi si è soltanto fermato e domani sarà altrove. Nell’intervista, scopriamo quanto lavorare a questo progetto abbia cambiato l’idea che l’autore stesso aveva del suo Paese: lo guarda con gli occhi di chi, dell’Italia, vede solo la sua bellezza e riscopre la fiducia nel domani.
Vieri, leggendo Breakfast on tour, si ha la sensazione che la scrittura di questo libro (e ancor prima della rubrica) sia partita da un’esigenza, trovare conferma in una tua convinzione: scegliere l’Italia non è una scelta giusta. È stato così? Qual è l’immagine che vorresti restituire a chi ti legge?
«A posteriori, ti dico che in realtà sono contento di averla scelta anche io o di essermi riconvinto anche io a scegliere l’Italia. Non che le cose siano facili per noi della nostra generazione, è tutto un continuo reinventarsi e dover stare a galla. A prescindere dalla situazione di oggi, del Covid. È comunque molto faticoso, non è mai niente dato per scontato, mai nulla lineare nella costruzione di noi stessi secondo me in questo Paese, almeno professionalmente. Però è una sfida e ci piace far gli acrobati: almeno, a me piace. Qual è l’immagine che vorrei restituire? Quello di un Paese che ha tanta bellezza nelle persone, tanta bellezza da donare, da dare gratuitamente, e di una società civile che in realtà fa tantissimo per gli altri, per gli stranieri, per chi è in difficoltà. C’è una rete, veramente invisibile, di persone che si adoperano, che si spendono. E questa immagine volevo restituirla, perché tante, non so se tutte, ma la maggior parte delle persone che ho incontrato sono persone che hanno avuto dei guardiani che li hanno aiutati nel loro percorso qui in Italia. Questo mi ha dato tanta forza, tanta sicurezza».
Perché proprio la colazione?
«La colazione, banalmente perché il pranzo o la cena erano forse troppo impegnativi. Mi piaceva trovare un momento delicato, come quello della colazione, ma anche abbastanza comodo per tutti. Nel senso che poi la giornata inizia e tutti riprendiamo a fare le nostre cose e va bene così. Forse il pranzo e la cena, considerando che le persone non le conoscevo, mi sembrava di entrare un po’ troppo a gamba tesa. In realtà, poi le colazioni diventavano anche dei pranzi, o se ci vedevamo il pomeriggio diventano delle cene. Poi per me la colazione è una cosa sacra. Mia madre ci ha sempre abituati alla colazione fuori, perché a lei piaceva la colazione al bar. Per me invece era un incubo, perché fin da bambino mi sarebbe piaciuto avere la tavola imbandita e vedere tutta la mia famiglia a colazione. È un momento che mi sono perso perché appunto per mia mamma era “Via su, vestirsi e tutti fuori”. Io odio la colazione al bar, è rimasta un incubo».
Quale delle ventidue storie che racconti ti ha emozionato di più? Quale porti nel cuore?
«Le porto nel cuore tutte, non lo dico così. Ma giuro, le porto nel cuore veramente tutte. Mi ha emozionato quella di Rachid e Yassmin, mi ha emozionato Cumba che è una ragazza senegalese che adesso vive a Parigi, che ha avuto un percorso suo, personale, legato all’emigrazione, all’attivismo, tra l’altro è una mia carissima amica. È una storia molto bella. Mi hanno emozionato tutti i ragazzi, tutte le storie dove ci sono giovani, bambini, adolescenti, tipo Jordan o i figli di Rachid e Yassmin, o i figli di Andrea e Xenia (lui italiano, lei russa). Sono molte belle, quella è linfa, è tutto quello che rimarrà all’Italia».
Nell’intervista con Filippo Taddia (Leggoecammino) ad un certo punto dici che anche le cose buone del nostro Paese devono essere raccontate. Quali sono? E quali le storture?
«Le storture? Le trovi sulle pagine di molti politici italiani. Le storture le trovi in tutti colori che prendono a pretesto una immagine sbagliata, retorica e fanno mistificazione dell’immigrazione, tutti quelli che per propaganda, per un voto, per ignoranza: non per forza ignoranza di stupidità, ma di poca conoscenza di alcuni fenomeni. Buttano lì roba, e lasciano andare dei messaggi che poi si sedimentano nelle coscienze e sono sbagliate. Queste diventano non solo storture, ma fatti gravi. Quali sono quelle belle? Sono tutte quelle forme di resistenza e attivismo, e ce ne sono, ce ne sono tante soprattutto negli ultimi due, tre anni. Ho visto la gente spendersi, per i senzatetto, per i Cas, per i centri di accoglienza, per gli Sprar, per l’emergenza abitativa. Qui a Firenze, per esempio, abbiamo avuto emergenze abbastanza importanti in questo periodo di Covid e la gente si è veramente spesa, si è rimboccata le manica. Questa è l’Italia che mi piace».
Cosa è, per te, la scrittura?
«Intesa in senso generale, la scrittura per me è una risorsa, un potere magico. Non un potere magico che ho, ma che c’è, e che quindi se a volte mi prende bene, se penso di essere nel momento giusto, di andarle incontro e lei venga incontro a me, è una cosa terapeutica, che salva. Se parliamo, invece, di questo tipo di scrittura, quella su cui mi sto concentrando adesso, che è infotainment: questo progetto di Repubblica era sì, carino, leggero, però allo stesso tempo si faceva anche informazione. E questo tipo di contenuti lo trovo abbastanza simile a come sono fatto in questo momento. Io non sono al cento per cento un narratore, però allo stesso tempo ho una formazione diversa anche da quella che è il giornalismo standard. Sono un po’ a cavallo tra le due, cerco di narrare fatti reali, di dare una parvenza romanzata a fatti reali. Questo tipo di contenuti è quello su cui vorrei concentrarmi».
Prevedi di continuare il tour di colazioni, il sequel di “Breakfast on Tour”?
«Ti direi di no, ma non lo so. Al momento non ci ho pensato, sarebbe bello provare a dargli un seguito ma dovrei strutturare bene come. Non certo con altre colazioni, né ritornando da queste persone: mi sembra che il ciclo sia chiuso, tendo ad andare oltre quando sento che qualcosa è finito. Se non fosse stato per Laura Montanari di Repubblica che mi avesse spinto a scrivere a Clichy, io avevo già dimenticato il progetto in sé, ovviamente non le persone. Ti direi che sono altrove al momento, quindi per ora la risposta è no».