Una proposta di riflessione su temi universali come la fratellanza, la vendetta, il perdono, l’amore, la morte e non solo. È quella che emerge dalle pagine del romanzo “Il selvaggio” del messicano Guillermo Arriaga. Due vicende apparentemente slegate che, come nella migliore tradizione dello sceneggiatore e scrittore messicano, convergono magistralmente
La copertina rosso fuoco di Il selvaggio (742 pagine, 16 euro) di Guillermo Arriaga, traduzione di Bruno Arpaia per Bompiani, suggerisce l’identificazione o rispecchiamento fra uomo e lupo e dice già molto sul quinto romanzo dell’autore nonché regista e sceneggiatore messicano, dal suo sodalizio con il celebrato cineasta e connazionale Alejandro González Iñárritu scaturiranno infatti le tre sceneggiature di Arriaga della cosiddettaTrilogia della morte, fra le quali quella di 21 grammi del 2003 e Amores perros del 2000, quest’ultima otterrà anche una nomination agli Oscar, mentre Arriaga stesso ha debuttato alla regia nel 2008 con The Burning plain e più recentemente, nel 2015, ha co-prodotto e sceneggiato Ti guardo, primo film sudamericano a vincere il Leone d’Oro come miglior film alla Mostra del Cinema di Venezia.
Dal cinema con suspense
La provenienza di Arriaga dal mondo del cinema si fa sentire anche in questo romanzo uscito in Messico nel 2016 e in Italia per Bompiani in prima edizione due anni dopo. Sia la scrittura che la messa in scena, lo stile e la struttura sono molto cinematografici. I singoli e brevi capitoli (sono sessantotto in totale) sono episodi, istantanee e stacchi improvvisi, ovviamente entro una storia ben delineata che si dipana progressivamente. All’interno dei capitoli, con andamento alternato e in alcuni casi retrospettivo, vi sono piccoli paragrafi che si interrompono bruscamente al loro stesso interno per lasciar spazio a una narrazione parallela e apparentemente slegata, per riannodarsi successivamente dove era stata troncata in un modo che aumenta in modo esponenziale l’effetto suspense, appunto in modo molto cinematografico. Non ci sarebbe da stupirsi se da Il Selvaggio venisse tratto un film, magari con la regia dello stesso Iñárritu.
Tornando alla copertina, fin troppo emblematica, il suo senso (e lo stesso senso del romanzo) lo possiamo trovare collegato a una delle ultime pagine dove viene riportata una canzone eschimese di un autore anonimo e intitolata Parole magiche:
All’inizio dei tempi/Quando gli esseri umani e gli animali vivevano sulla terra,/se una persona lo desiderava poteva trasformarsi in animale e un animale in umano./A volte erano persone,/ a volte animali/non c’era differenza./ Tutti parlavamo la stessa lingua./Era il tempo in cui le parole erano magiche./La mente umana aveva poteri misteriosi./Una parola detta per caso/poteva provocare strane conseguenze./All’improvviso acquistava vita/ e ciò che la gente voleva che accadesse,/accadeva,/l’unica cosa che dovevi fare era dirla./Nessuno può spiegarlo, è così che era prima.
Un nativo canadese e un lupo
Le esistenze e le storie parallele del romanzo di Arriaga sono quelle di Amaruq, un nativo delle desolate e selvagge terre canadesi, un uomo il cui destino si lega indissolubilmente a quello di un lupo nei boschi dello Yukon, una volta meta della mitica corsa all’oro, e quella del protagonista principale che deriva il nome in parte da quello dello stesso autore, il suo nome è infatti Juan Guillermo. Da notare che Arriaga all’età di tredici anni ha perso l’olfatto a seguito di una rissa, e anche la brutalità della violenza in Il Selvaggio avrà un ruolo non secondario, e se è vero come viene detto che anche negli asettici testi scientifici e nello stesso avanzare delle conoscenze scientifiche non si prescinda e siano in esse contenute i dati biografici e parte del vissuto degli scienziati, facile immaginare che parte della biografia dello scrittore messicano sia potuta tracimare nel suo ultimo romanzo.
Certi cattolici messicani conniventi col potere
Seguendo la vita di Juan Guillermo e della sua famiglia ci troviamo invece nel Messico e fondamentalmente nella sua capitale che ne è lo sfondo principale, a cavallo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, un paese corrotto fino al midollo nel quale si praticano aborti clandestini, nella quale la fanno da padrone poliziotti e avvocati corrotti. Una setta religiosa di integralisti cattolici denominata I giovani impegnati con Cristo è in realtà una vera e propria organizzazione di estrema destra che con la compiacenza degli stessi poliziotti e avvocati organizza spedizioni punitive e “correttivi” per cercare di riportare sulla giusta strada coloro che hanno deviato dalla “vera” fede, siano essi comunisti, eretici solo per aver abbandonato la professione ufficiale di fede, ebrei e omosessuali, spingendosi senza esitazione fino all’omicidio. Un quadro che rispecchia con la mimesi letteraria ciò che realmente è accaduto nel Messico di quegli anni quando per contrastare l’avanzata della sinistra, le mai sopite spinte cattoliche radicali conniventi con il potere politico come in tutta la storia del Messico del Novecento, hanno cercato di rintuzzare le istanze alla democratizzazione dello stesso paese, lo stesso paese nel quale il partito al potere per decenni, e nato come diretta emanazione della Rivoluzione messicana culminata con la nascita degli Stati Uniti Messicani del 1917, ha pensato di chiamarsi Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), un palese ossimoro.
Un orfano fino al midollo
In una Città del Messico anarchica e selvaggia, malinconica e crudele, Juan Guillermo si trova a fare i conti con tale organizzazione, quei “bravi ragazzi” che uccideranno il fratello maggiore Carlos coinvolto in alcuni traffici illeciti fra cui anche un allevamento di cincillà. Tra combattimenti di cani clandestini, furti di feti in formalina, domatori di tigri, fughe sui tetti di ragazzi preadolescenti, nella giovane vita di Juan Guillermo (quando lui ha quattordici anni inizia la narrazione dei fatti), farà irruzione in modo brusco e devastante la morte che già lo aveva segnato come un destino dalla nascita, infatti il suo fratello gemello morirà nel grembo materno. Il fratello Carlos morirà per mano degli integralisti religiosi al cui capo vi è lo spietato Humberto, i genitori moriranno pochi anni dopo in un incedente stradale nel quale ancora moribondi invece di essere assistiti da coloro che avrebbero potuto soccorrerli, vengono derubati. É un mondo ferale quello nel quale Juan Guillermo si trova immerso alla soglia della maggiore età, “orfano fino al midollo”, solo e libero, in uno svolgimento che sembra ricalcare per le tematiche della scomparsa degli affetti familiari quelle del celeberrimo esordio del 2000 di una delle voci più conosciute della narrativa nordamericana contemporanea: Opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers (edito in formato tascabile da Feltrinelli nel 2020). Ma laddove in quel caso il nostro eroe fuggiva con il fratellino in un grande on the road sulle strade d’America, in questo caso Juan Guillermo, non si muove dalla sua città e fonte del dolore (almeno inizialmente), dove l’unica luce sembra essere quella di Chelo, l’amore di una ragazza le cui “promiscue” caratteristiche non sembrano che confermare l’universo di sofferenza al quale il giovane ragazzo sembra inevitabilmente essere destinato. La meditata, elaborata e poi in parte ritrattata vendetta di Juan Guillermo su Humberto occupa un ampio spazio del romanzo che diviene quindi una proposta di riflessione su temi universali come la fratellanza, la vendetta, il perdono, l’amore, la morte e non ultima la libertà.
Due selvaggi in parallelo
I due percorsi narrativi, trama e sottotrama, quella di Juan Guillermo e quella di Amaruq, cacciatore alla prese con un lupo chiamato Nujuaqtututuq (in lingua inuit il selvaggio), apparentemente slegate si alternano e si avvicinano l’una all’altra, in un modo non sempre lineare, al testo vengono interpolate digressioni su rituali, etimologie, testi sacri, nozioni antropologiche e filosofiche in alcuni casi fin troppo didascaliche e che spezzano il ritmo della narrazione, ma che comunque tengono alto il pathos e il significato simbolico del racconto. Nelle lotte tra animali e il confronto con la natura selvaggia del plot riguardante il ragazzo inuit Amaruq e il suo confronto e inseguimento con il lupo, non si può che cogliere per analogia l’esistenza stessa del protagonista principale:
“Amaruq osservò dall’alto di una montagna il grande lupo grigio e il suo branco che si perdevano tra i boschi. Decise di chiamarlo “Nujuaqtutuq”: il Selvaggio”.
”Nujuaqtuqtuq, lupo temerario, lupo fantasma, lupo quasi impossibile da cacciare”
Anche Juan Guillermo è un selvaggio, le prove che si è trovato ad affrontare lo hanno segnato in modo indelebile in tal senso ma non lo hanno fiaccato, in nome di quella libertà della quale il bellissimo ed evocativo finale è la più suggestiva testimonianza.
Il percorso di avvicinamento fra i due piani narrativi si completa proprio nel finale di questo corposo ma affascinante volume, un po’ il romanzo mondo di Guillermo Arriaga, il quale si autodefinisce “cacciatore e scrittore”, sicuramente un degno architetto della scrittura, potente, granitica, per certi versi e come espressa in questo romanzo hemingwayana, e degno corredo di un romanzo che è un grande inno alla libertà e alla vita.
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