“O d’amarti o morire” della debuttante Francesca Guercio è una tragicommedia sul mondo postmoderno, una ventata d’aria fresca, che sperimenta con i registri, le tecniche narrative e la lingua. Protagonista una suicida che torna nel mondo e assiste alla vita altrui, in particolare quella dell’attore di cui è stata amante e che ama ancora. Alla fine del suo viaggio una consapevolezza: ognuno cerca di tenersi in piedi come può
È al suo esordio, Francesca Guercio, con O d’amarti o morire (328 pagine, 14 euro), un romanzo pubblicato da Polidoro editore all’inizio di questo anno pieno di aspettative. Il titolo è tratto da uno dei madrigali di Carlo Gesualdo da Venosa, autore del ‘500, e non c’è da sorprendersi che alla poesia sia dato il compito di aprire un testo che è stato definito, intuitivamente, una “cantafavola” – ibrido tra prosa e poesia. Il racconto è bizzarro, una sorta di scherzo del destino: la donna che fa da io-narrante è, infatti, una sopravvissuta a metà, una morta che ritorna sulla terra, inspiegabilmente, come spettatrice della vita altrui. Accade poco dopo essersi suicidata gettandosi nel Grand Canyon, con la speranza di liberarsi dall’assenza soffocante di Lui, l’uomo che ha amato e che ama ancora. Eppure, quando risale dall’abisso della morte, è proprio sua la Ford in cui si ritrova come fantasma, ed è sua la vita a cui sarà costretta ad assistere. Lui è un attore pieno di sé, vittima della propria ambizione vorace; un uomo circondato da donne che non si concede mai di amare e che lascia senza alcuna spiegazione, quando il rapporto sta diventando fin troppo forte. Nella sua vita c’è solo una donna stabile: si chiama Eliana ed è la moglie di sempre, oltre che la madre di suo figlio Patrizio. Il loro rapporto è un saliscendi turbolento: a volte si gridano addosso, più raramente si sciolgono in un abbraccio. Stanno insieme ma sono soli, in fondo, come se vivessero due vite parallele: Eliana fa la parte di una strana e contemporanea Penelope, rimanendo a casa con il figlio e aspettando il ritorno di Lui; Lui, invece, si è trincerato in una bolla solida e compatta nella quale nessuno è ammesso, e trascorre la vita viaggiando su e giù per l’Italia, tra teatri e associazioni culturali.
Una voce cinica e sarcastica
Lo spunto del romanzo sembra riecheggiare quello di altre storie: impossibile non pensare, per esempio, ad Acquabuia di Joyce Carol Oates, un lungo monologo attraverso cui una donna racconta come l’uomo che “amava” – anche qui, di un amore a senso unico – l’ha abbandonata mentre moriva. Ma il romanzo di Francesca Guercio non ha nulla a che fare con questo tipo di narrazioni. Non è una tragedia né il racconto sublimato di un sogno afflosciatosi su se stesso. È, invece, un libro scanzonato, animato da una voce cinica e sarcastica che procede dissacrando quei concetti che, nell’immaginario comune, sono ammantati di un senso di assolutezza: amore, morte, sofferenza, solitudine, orgoglio. Questo romanzo si muove in un mondo pienamente postmoderno, nel quale non è possibile trovare altro che relitti, brutte copie, uomini e donne che si tengono in piedi a fatica, portando avanti una recita a cui non credono più neanche loro. E infatti gli intermezzi poetici che scandiscono il racconto hanno la struttura di inventari di cianfrusaglie, di racconti quotidiani frammentati e smozzicati. Non c’è alcun messaggio nascosto, non ci sono verità da decifrare: c’è solo lo spettacolo dell’insensatezza dell’esistenza, il rumore in sottofondo delle televisioni, le leggi di mercato, le bollette da pagare.
Comunità di rappresentatori, tutti / siamo donne e uomini esitanti / sul ciglio dell’eterna narrazione / funzioni verbali degli eventi, strumenti / del pensiero divertenti / nel senso ontologico del verso / inteso come volta, direzione / senza riposo nel tempo liberato / occupato da armistizi celebrali.
No alle consuetudini letterarie
Di questo mondo insensato e abbandonato a se stesso non resta altro che ridere, e difatti la protagonista non prende mai sul serio né se stessa né il mondo che ha attorno. Il suo sguardo è irriverente, scomposto, anche nei confronti delle consuetudini letterarie: la narrazione scalpita, si lascia andare, infrange il muro che separa storia e lettore attraverso la metalessi – ed è tutto un gioco di ammiccamenti, come in una puntata di Fleabag.
Può succedere che mentre ti godi una pausa dal lavoro, rilassata e senza ombra di paturnie, scorrendo il programma di posta elettronica in compagnia di un tè forte e profumato, lui riesca a ingrigirti l’esistenza con un’inattesa e-mail in cui il resoconto farraginoso del suo dramma del momento si coniuga alla tristezza del ramo che si secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che rantola. […] Deposto il tè e accantonato il diritto alla tranquillità, il bisognoso viene senz’altro collocato al vertice del podio; e mentre il resto del mondo staziona in seconda posizione tu occhieggi vereconda dal terzo gradino a sinistra.
I narcisi bambini sui trampoli
Eppure, al di là dell’ironia e del sarcasmo, a volte, tra le righe, si intravede una profonda malinconia, un senso irrimediabile di solitudine. È la consapevolezza del fatto che la vita assomigli a una recita venuta male, nella quale ad alcuni spetta la parte degli sconfitti e ad altri quella di chi rimane in piedi. Ma è una parte, appunto, che serve a soffocare la realtà: e cioè il fatto che anche i narcisi, alla fine, non sono altro che bambini che camminano sui trampoli, in un difficile esercizio di equilibrio. E allora, questo O d’amarti o morire, più che una commedia, è una sorta di tragicommedia, una riflessione disincantata che sorvola paure, ansie, personalità inconsistenti, risa e lacrime soffocate – a volte plana più in basso, rischiando di toccare terra; altre preferisce rimanere distante, nella maniera in cui solo una morta, e cioè una che non ha più a che fare con questo mondo, può fare. La voce di Francesca Guercio è una ventata d’aria fresca, che non si tira indietro davanti alla possibilità di sperimentare con i registri, le tecniche narrative e la lingua. E arrivati alla fine di questo viaggio, il traguardo ha il senso di una chiara consapevolezza: in questa esistenza, piena di contraddizioni, ognuno cerca di tenersi in piedi come può.
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