“Pescirossi e pescicani” è un viaggio al termine della notte di traffici illeciti in Italia e nel mondo. L’ha scritto un giornalista di razza, Sandro Di Domenico, che ha scovato analogie e corrispondenze tra incidenti e speronamenti in mare, raccogliendo testimonianze e frasi smozzicate, facendosi qualche nemico. Facendo tutto quello che molti giornalisti non fanno più…
«Non è stata una grande stagione quella degli ultimi vent’anni per quanto riguarda il giornalismo in Italia. Specie per la capacità di inchiesta». E per il destino di molti giornalisti, verrebbe da aggiungere, un mestiere in via d’estinzione, finale a cui hanno contribuito gli stessi attori protagonisti, insieme a derelitti o incapaci capitani d’impresa. La citazione riportata fra virgolette è tratta da Patria 2010-2020, un libro edito da Feltrinelli, scritto da Enrico Deaglio, uno per dire che tra la fine dello scorso millennio e l’inizio di quello in corso, ha realizzato una fantastica impresa, col suo Diario della settimana, periodico che costituiva un appuntamento imperdibile per tanti in edicola (l’edicola, ricordate questo luogo preistorico, adesso sommerso da giocattoli di plastica?). L’analisi di Deaglio è una pietra tombale per il giornalismo che indaga temerariamente, ma ci sono le dovute eccezioni, spiragli in certi giornali di carta stampata (ricordate i giornali di carta stampata, quegli oggetti che adesso – causa pandemia – non si trovano da sfogliare nemmeno al bar o dal barbiere?), approfondimenti televisivi in orari atroci, chicche in Rete. E poi c’è un libro, pubblicato da MInimum Fax, che ha avuto come editor un bravissimo scrittore (Fabio Stassi), ed è opera di un giornalista vero, di uno che può urlare a gran voce di fare il giornalista ancora oggi, nell’Anno del Signore 2021, e di amare ancora questa professione. Non capita a tutti.
Riannodare fili, oltre le difficoltà
A lui, il campano Sandro Di Domenico, autore di Pescirossi e pescicani (139 pagine, 15 euro), è capitato perché ci ha creduto, perché non si è fermato dinanzi a difficoltà oggettive e ad angherie, non si è lasciato intimorire da silenzi, omissioni, morti sospette, mancanza di fondi (servono anche soldi, per fare il giornalista a certi livelli, per andare in certi luoghi, per parlare occhi negli occhi con le persone), si è lasciato trascinare dal culto della verità, dalla caparbietà. Ha indagato per anni mari vicini e lontani, ha riannodato fili e peripezie, scovato analogie e corrispondenze, raccolto testimonianze e frasi smozzicate, si è fatto certamente qualche nemico. Un volume snello, quello di Di Domenico, frutto però di parecchi anni di indagini, con articoli e documenti scartabellati, con protagonisti raggiunti, e con un filo rosso, navi cargo della compagnia Messina, tutte chiamate Jolly. Un’inchiesta in cui Di Domenico punta il dito contro il traffico e lo smaltimento di rifiuti speciali, che avvelenano le vie dei mari e degli oceani, porti italiani e internazionali. Tutto inizia nel 2011 quando un peschereccio di Torre del Greco è affondato, vicino Ischia, da una di queste navi: perdono la vita un padre e un figlio.
Carrette del mare e disastri ambientali
Incidenti e naufragi, scoprirà Di Domenico, si susseguono da anni, ineluttabilmente, in acque italiane e ai quattro angoli del mondo. Le tessere del puzzle si avvicinano una alla volta e il quadro è spaventoso; le pennellate sono motori in avaria, speronamenti e barche arenate, manovre rovinose e crolli (straziante il racconto di quello della torre piloti del porto di Genova, nel 2013, con 9 vittime), ma soprattutto rifiuti tossici portati indebitamente in giro da attempate carrette del mare (mezzi su cui non si investe, in cui la sicurezza è un optional), disastri ambientali dalle coste del Sud Africa a quelle della Calabria. Scrive senza sfoggiare stile, Di Domenico, perché la differenza la fa la sua passione, la stessa che trasmette al lettore, che si mette al suo fianco, a caccia della verità, tra atti giudiziari e container “avvelenati”.
Apprendistato professionale e crisi del mestiere
Pescirossi e pescicani è (anche) la storia di un apprendistato professionale – non ci sono concessioni biografiche se non quelle legate al mestiere – è un requiem per quanti accettano che le storie da prima pagina scivolino lentamente verso le pagine interne, senza un pizzico d’intuito, senza procurarsi le fonti, senza fermarsi a guardare, riflettere, capire cosa c’è oltre nomi e situazioni, senza cogliere sprazzi di umanità, senza produrre empatia. È la ricerca delle responsabilità di quelli che non si fatica a chiamare criminali. Ed è l’impietoso resoconto di un sistema dei mass media accartocciato su se stesso, in una crisi che forse si può rallentare, ma non fermare. Molti giornalisti si fanno poche domande e non possono, non vogliono, andare oltre la superficie. Questo libro dimostra che il contrario è possibile. Sarebbe bello che il freelance Di Domenico (Nino Femiani il suo mentore, appare anche nelle prime pagine) avesse una scrivania e certezze, dopo tanta gavetta. Ma se le avesse magari non potrebbe fare quello che fa adesso, benissimo.
È possibile ordinare questo e altri libri presso Dadabio, qui i contatti