“Discorso su due piedi (il calcio)” di Carmelo Bene ed Enrico Ghezzi è l’occasione per parlare di ben altre cose, oltre al calcio. Un dialogo che, passando anche dai gesti di grandi campioni dello sport, approda alla distinzione tra atto e azione, ove l’azione è legata al principio di consequenzialità, di sceneggiatura, di testo a monte, di pensiero, mentre l’atto si trova nei grandi gesti degli sportivi come “depensamento”, il giocare a occhi chiusi, nell’immanenza e allo stesso tempo nella trascendenza del gesto tecnico e artistico. Come bonus track un audio di Enrico Stiaccini
Durante l’anno appena trascorso, afflitto da tutto ciò che non vale certamente qui citare e commentare, fra le tante cose accadute va anche annoverata la scomparsa di due differenti geni calcistici, così diversi, sia come caratteristiche tecniche (di genio) che umane, come tutti gli uomini e le donne divergono l’uno/a dall’altro/a. El Pibe de Oro (al secolo Diego Armando Maradona) e Pablito (al secolo Paolo Rossi) se ne sono andati quasi alla fine di questo strano e per molti versi drammatico anno. Rimarranno appunto le loro opere di genio irripetibili (calcistiche nella fattispecie) e ciò che a esse è legato, per ognuno che le ha in qualche modo incrociate connesse a ricordi intimi e privati, quindi anch’essi irripetibili.
Il calcio come pretesto
Due sono anche i protagonisti di un libriccino uscito presso Bompiani nel lontano 1998 e riedito da La Nave di Teseo nel 2019 grazie alla lungimiranza di Elisabetta Sgarbi che se lo è portato con sé nella nuova avventura editoriale presso la casa editrice milanese. Il titolo è solo apparentemente a tema con quanto detto nel primo paragrafo, cioè il calcio, infatti il titolo è Discorso su due piedi (il calcio) (156 pagine, 11 euro), ma non solo il calcio, che è solo un pretesto per parlare di ben alte cose. Gli autori sono Carmelo Bene ed Enrico Ghezzi. Se ci fosse bisogno di una presentazione dei due, nel caso del primo, attore, regista, drammaturgo, scrittore e poeta italiano (da Wikipedia), si potrebbe semplicemente rimandare alle sue opere complete contenute nel volume edito da Bompiani nel 2008 dal titolo Opere. Con l’autografia d’un ritratto. Ma frammenti beniani si trovano disseminati ovunque, soprattutto «nel canto che dilegua» e nella «scrittura di scena» dell’iconoclasta, «irrappresentabile» e irripetibile opera teatrale del genio e «macchina attoriale» di Campi Salentina. Sul secondo, sempre che abbia bisogno anche costui di una qualche presentazione, si rimanda invece alla quarta di copertina del piccolo ma densissimo volume edito da La Nave di Teseo nella sua collana Le onde, quarta di copertina ove il ben noto co-creatore di Blob e Fuori Orario (tra le altre cose), oltre ad avere lo stesso al suo attivo numerose pubblicazioni sul cinema del cui pozzo senza fondo testimonia la sua profonda conoscenza e amore, si definisce “apolide toscano”.
Una lezione di estetica
Il Discorso su due Piedi (il calcio) è in realtà proprio un discorso, trattandosi come indicato della “Trascrizione e adattamento di una conversazione di un pomeriggio di fine marzo del 1998”. Il terreno comune di questo incontro-intervista-dialogo-racconto è quello del campo da calcio dove va in scena l’unico rito superstite della società contemporanea.
Nel serrato dialogo tra i due il calcio diventa metafora dell’arte, del cinema, del teatro, della vita stessa, perché no. Si tratta un po’ dell’estetica applicata al calcio, una sorprendente, affascinante e antiaccademica lezione di estetica da tramandare non solo agli amanti del calcio, sintetizzando con una delle efficaci e fulminanti espressioni beniane “un calcio al cinema”.
Nel volume ovviamente c’è tanto dell’estetica beniana e della stessa visione del cinema che ha Enrico Ghezzi, e le loro reciproche escursioni dialoganti dal calcio al mondo della celluloide hanno un effetto straniante e sublime. In CB (il nomignolo affibbiato a Carmelo Bene dall’inclassificabile filosofo francese Gilles Deleuze che ne è stato un suo attento studioso) è celeberrima la sua repulsione per il cinema. Il suo volume Contro il cinema edito da Minimum Fax nel 2017, oltre a essere la testimonianza della sua inclassificabile e geniale parentesi cinematografica con i cinque cortometraggi realizzati tra il 1968 e il 1973, è soprattutto il suo paradossale e fulminante atto di accusa contro un’arte che sconfessa l’atto in nome dell’azione, del movimento.
Quei grandi sportivi
La contrapposizione tra atto e azione è il cardine dell’estetica beniana, in tutte le sue opere e in tutta la sua concezione del teatro come scrittura di scena che si contrappone al teatro di regia con testo a monte. Dice CB:
Ciò che rimprovero al cinema è di essere nell’azione, sconfessare l’atto, cioè di privarsi dell’atto.
É lo stesso concetto che applicato al calcio e alle performance sportive in genere lungo il volume vede i due interlocutori parlare indifferentemente di Romario, il calciatore e fuoriclasse del Brasile degli anni Novanta, come massima espressione della purezza cristallina del gesto (tecnico) geniale, “il quid”, “l’immediato”, perché il tempo non esiste, come non esiste il campo nel quale il calciatore brasiliano sembrava starsene nascosto, «fuori campo», come nel cinema, per poi balzar fuori, dall’invisibile, «L’uomo ombra» come CB definisce anche un altro sportivo, uno dei più grandi sciatori di tutti i tempi, il mitico Ingmar Stenmark. Allo stesso modo ci parla di Carl Lewis, l’ex velocista e uno dei più grandi atleti di tutti i tempi, colui che «invece di correre sembrava essere corso, perché in lui non si vedeva lo sforzo», che poi questa è la base del pensiero beniano sul genio: «fanno quello che possono, non quello che vogliono». O ancora, il cestista Michael Jordan del quale dirà: «siamo in un immediato, la mia iconoclastia è appagata finalmente». Questo è il senso della distinzione che fa Carmelo Bene tra atto e azione, ove l’azione è legata al principio di consequenzialità, di sceneggiatura, di testo a monte, di pensiero, mentre l’atto è lo stesso che si trova nel teatro di Artaud, nei grandi gesti degli sportivi come “depensamento”, il giocare a occhi chiusi al quale si riferisce parlando dell’ex tennista Stefan Edberg, essere nell’immediato, nell’immanenza e allo stesso tempo nella trascendenza del gesto tecnico e artistico.
L’arte, la democrazia
La trascendenza dell’arte è quella che trasporta (il trasporto altro concetto estetico tipicamente beniano) donne e uomini nel regno dell’uguaglianza, della pura contemplazione estetica dell’arte, forse il solo luogo deputato alla vera democrazia quindi, che sia questo il motivo per cui il Potere, ogni tipo di Potere sembra voglia lordare e invadere le nostre vite solo con brutture? L’immediatezza del gesto artistico, tecnico se applicato a una performance sportiva, è anche il regno dell’invisibile come sottolinea Ghezzi dicendo che nello sport accade l’inverso di quanto ci dice Freud: l’io diventa ES, dopo essersi illuso di essere io; il punteggio, chi vince chi perde, i contorni del campo di gioco, per poi invece perdersi, in un gesto, unico, assoluto, immediato. Sullo stesso tema CB parlando di boxe, cita Duran, ricordando come l’ex pugile panamense dopo un incontro dal quale uscì sconfitto questi disse: “Non l’ho mai visto”, frase che ricorre spesso nel linguaggio degli sportivi, la stessa cosa che emerge dal faccia a faccia con Ghezzi sul cinema quando i due si addentrano in precise e acute riflessioni sui “ventiquattro fotogrammi al secondo” che compongono l’immagine cinematografica. Dice CB:
I ventiquattro fotogrammi al secondo mi fastidiano. L’azione mi fastidia
E ancora:
Io detesto il cinema. Ho appena scritto un pezzo contro il cinema, contro l’immagine. Detesto anche l’arte, ma almeno quando becco un singolo fotogramma mi suggerisce delle energie, una dinamica, un’energia… da dove è nato, da dove viene, dove va…
Per creare azione servono ventiquattro fotogrammi; isolando i singoli fotogrammi troveremo l’infinito, il gesto. É la stessa cosa che avviene in un assist di Maradona o in una volée di Stefan Edberg, ed accade lì, non c’è bisogno di essere degli intenditori ci dice CB, «perché senti migliaia di persone che sono in sintonia con questo fiato nostro. Che non è comunicativa, non è comunicazione», appunto è trascendenza, e uguaglianza, è essere portati fuori. Parlando del samba dice CB: «l’effetto di ogni allegria è dato dallo stordimento» e sul Brasile (la squadra di calcio): «bisogna onorare il Brasile, l’unico che mi porti fuori». Altrettanto illuminate il controcanto di Ghezzi: «Io non ci vado allo stadio, sono in uno stadio mentale».
Tra Pizzuto, Calloni e Amleto
Sull’onda emotiva dei loro “trasporti” Ghezzi e Bene scivolano fino ad arrivare a parlare di pattinaggio artistico, della Scapigliatura milanese, di Antonio Pizzuto «che i siciliani non conoscono» (viene voglia di leggere tutto di ciò che è citato in questo piccolo ma preziosissimo volume), del saltatore in alto Sotomayor, del saltatore con l’asta Bubka, fino al fantomatico Calloni, un semi sconosciuto calciatore degli anni Settanta che pur essendo rimasto nella storia come il Cimabue del calcio italico (ne fa una ne sbaglia due), pur nelle sue performance mancate riesce a trasmettere l’eccellenza del gesto, in quel caso mancato (il “manque” altro concetto beniano, anche se parlare di concetti in CB è solo un’aporia), per arrivare a chiudere nientemeno che con Amleto: quanti Amleti hanno visitato Bene! Così avrebbe detto CB e non viceversa quanti ne ha rivisitati lui nelle sue opere teatrali:
Se non è ora sarà avvenire. Se non è avvenire sarà ora. Se non è ora pure verrà. Star pronti è tutto. Ché se nessuno di noi sa nulla di ciò che lascia, dimmi che importa lasciar prima del tempo? Lascia andare.
Non sono giochi di parole, è il senso del tempo, è il non tempo, l’irrappresentabilità, l’irrappresentabile dell’arte, del gesto sportivo, della parola teatrale, l’oltre la scena, dal greco O-skené (osceno). La domanda è se si possa rappresentare l’irrappresentabile. La parola, o un gesto (teatrale, sportivo, cinematografico), vicari del Verbo a volte possono provarci, sono le opere di genio che quantomeno possono segnare un tracciato.
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A corredo dell’articolo vi proponiamo una minisceneggiatura dal libro, firmata da Simone Bachechi e interpretata dal fiorentino Enrico Stiaccini. Bibliofilo, appassionato dell’arte del dire e del pensare, Stiaccini produce anche dei brevi video sul suo canale YouTube per mero diletto e come arricchimento della fantasia. Buon ascolto