Editore e scrittore, filosofo e contadino, Massimo Angelini, scrive che è una meraviglia e coltiva la vita, ci restituisce le parole come contenitori coi loro contenuti, segni coi loro significati. Angelini tratta il Sacro come questo merita, senza conferirgli titoli onorifici in netta contrapposizione alla sua natura popolare, la sua opera letteraria è una cura (e culla) intellettuale capace di partire dal basso, alla portata di ogni buon lettore per cui la lettura è un percorso di conoscenza
Il Natale è propulsione di vita, di slanci aperti al possibile, di memorie legate all’atto del vivente per eccellenza, che può essere vagito come grido, e in ogni caso linguaggio. Perciò oggi questa rubrica presenterà un autore… tutt’altro che morto!
Per due buone ragioni.
Primo, perché ha tuttora 61 anni, scrive che è una meraviglia, si occupa dell’orto come della sua casa editrice, e non è ancora né passato né trapassato (semmai è Participio futuro, ma su questo torneremo dopo). Secondo, perché il suo campo d’azione, il suo oggetto di studio e di scrittura, non può – per sua stessa natura – aver nulla a che fare col più gretto concetto di morte, quando cioè quest’ultima vien vista solo come “la” fine.
“Il” fine di Massimo Angelini, piuttosto, è proprio quello di coltivare la vita, nelle sue forme più prossime al fenomeno umano, dove l’osservabile e il percepibile, ma anche ciò che lo spirito riesce a cogliere dal tutto, diventano epifanie di senso, del Senso. Di tutto ciò, Angelini raccoglie, segnala, cataloga e conserva tutte le semantiche sparse, talvolta indifferentemente intraviste da intelletti ormai soggiogati all’abitudine di un parlare senza dire, e spessissimo ignorate.
Cosa custodiscono le parole
Da quando ho conosciuto Angelini (non è poi passato così tanto tempo) e da quando ho letto il suo primo libro, l’ho poi sempre immaginato come uno di quei signori che di notte, nella discrezione di un segreto di sopravvivenza, rovistano nei cassonetti in cerca di qualcosa che possa ancora servire. Lui fa tutto ciò, nella stessa identica maniera, ma con le parole. Chinandosi alla loro antica ed umile aristocrazia, che appartiene alla nobile casata dei “segni”, Angelini ricupera con certosina pazienza e devota attenzione non solo le parole, ma ciò che esse custodiscono. Ci restituisce – e in ciò mi sembra d’aver individuato la sua missione intellettuale – i contenitori coi loro contenuti, i segni coi loro significati.
Tutto questo Angelini lo fa attraverso la forma della letteratura, del saggio che – lungi dall’essere studio distaccato e asettico – diventa quasi un colloquio sapienziale, ma senza la pretesa d’esserlo; una chiacchierata tra l’inconsapevole discepolo e il mai sedicente maestro, il quale traccia un solco di conoscenza proprio perché si allontana continuamente, e a grandi passi, dal solo sospetto d’esserne capace. L’umiltà è virtù troppo fatta di terra per non appartenergli. Ed è bello che io, liberamente, possa dirlo di lui! Perché l’humus di un campo richiama lo sguardo grato di un contadino, come l’umiltà di un testo quello riconoscente di un lettore.
La natura rurale della cultura
I suoi libri rivelano verità interessanti. La prima è quasi una rivincita su un comune pregiudizio editoriale, quello che tende a sminuire le auto-pubblicazioni. Mi spiego meglio, cercando di far luce sulla fattispecie. Si può auto-pubblicare per due ragioni: la prima è che si voglia stringere in mano il frutto del proprio intelletto, nella forma di un libro (basterebbe? Sappiamo di no, è considerato un pubblico peccato); la seconda è che sei un editore, e quindi te ne sbatti altamente e pubblichi i tuoi libri insieme a quelli degli altri, come del resto ha sempre fatto anche Roberto Calasso (ma a lui chi dice nulla? Giustamente, aggiungo). Se a questa seconda motivazione si aggiunge quella di una necessità di tipo etico, che ti spinge e ti costringe a condividere ciò che potrebbe servire all’uomo per coltivare se stesso (toh, la cultura!), allora il delitto sarebbe esimersi dal farlo. Pentàgora, la casa editrice di Massimo Angelini, in effetti non fa altro che questo: ricondurre la cultura al suo significato primo, alla sua sostanziale natura rurale: una cultura senza terra non produrrebbe frutto. Un sapere senza umiltà non produrrebbe sapienza. E in ogni caso, non è solo per Pentàgora che Angelini ha pubblicato.
Vi è un arcano piacere quando, con gli occhi e con l’immaginazione, si studia un vecchio album di famiglia e quasi si gioca a riconoscere in antichi tratti di visi color seppia certe forme umane a noi note, a noi vicine nello spazio e nel tempo: «Guarda il nonno! Qui aveva l’età di tuo fratello Carmelo! Sembrano proprio gli stessi!»
Eppure non lo sono. Sembrano, appunto. E tuttavia, questo “sembrare” da un lato impedisce sovrapposizioni di identità, dall’altro dispone ad una provvidenziale continuità. Così, anche alle parole – che hanno antenati ed avi – il tempo ha scattato le sue foto, talvolta troppo ingiallite, incrostate di abuso o di dimenticanza. La memoria degli uomini è il grosso album che le contiene; l’etimo il sottile dito che le rinviene.
Occorre perciò il poeta, perché le reinventi, cioè le ritrovi. O il narratore, perché di esse ci racconti la meravigliosa storia rimasta incastrata nel disuso, nell’ingranaggio arrugginito di una lingua spesso inconsapevole di se stessa e della sua genetica.
Un logoveggente
Poeta o narratore? In entrambi casi un logoveggente: chi racconta una storia, ma ne riordina le parole secondo un ordine spesso asimmetrico, capace di riassumere quella bellezza che talvolta l’ordine cosmico delle nostre geometrie preconfezionate (ancorché letterarie) non riesce a riflettere. E torniamo dunque ad Angelini, ai suoi testi, alle sue parole, che non sono “sue” come non lo sarebbero quelle di una divinità dentro la bocca di un profeta: parla davanti alle parole, e per loro. Le possiede perché ne è posseduto in una sorta di estasi: una vera e propria transverberazione, un essere attraversato dalla parola, dal senso, dal verbum, dal lógos. Senza entusiasmi puerili, ma per una devozione matura; un’ispirazione mistica.
Conobbi Massino a Torino, al Salone internazionale del libro. I nostri areali confinavano. Due cose mi attiravano del suo spazio: una macchinetta del caffè, che poteva esimerti dal percorrere trecento metri in direzione del bar e affrancarti da quei dieci minuti di coda alla cassa, e tutti quei libretti che – a colpo d’occhio – rivelavano la discrezione di letture particolari, magnetiche come sanno essere certe persone silenziose, che si impongono subito alla tua attenzione, pur senza volerlo. Tra un caffè e una sfogliata a quei testi, la chiacchierata e la conversazione fu l’immediato e successivo passo. E quando, alla fine di quella magnifica esperienza torinese, tornai a casa alleggerito da qualche copia in meno del mio romanzo, e appesantito da tutti gli altri libri che avevo acquistato in quei tre giorni, portai con me anche l’unico che mi era stato regalato: Ecologia della Parola, un dono del suo stesso Autore. Ricordo ancora quando passai in rassegna, con curiosità crescente, i titoli dei capitoletti, che apparivano come tante promesse di chiarimento, e non vedevo l’ora di assaporarli uno per uno!
Intenzione morale, stile accattivante e chiarezza
Quando finalmente ebbi l’occasione di leggerlo, mi stupii di quanta virtuosa attenzione era stata posta non solo nella scelta dei contenuti, ma anche nel modo con cui erano stati esposti: una linea poetica, quasi musicale, legava tutte quelle pagine al suo scopo, che risultava altissimo e visibile: Angelini riusciva a coniugare in modo meraviglioso un’intenzione morale, uno stile accattivante ed una chiarezza simile a quella delle fiabe, raccontandoti la “lingua” senza scialacquamenti linguistici, fedele – appunto – ad un’ecologia della parola. Quel titolo non poteva essere più azzeccato. Ne rimasi folgorato. Più avanti acquistai Minima ruralia (un vademecum linguistico e concettuale sul mondo rurale), l’Enigma Garibaldo (un appassionato saggio di antropologia storica) e Participio futuro (un inno al simbolo, alla sua potenza unitiva, alla sua onnipresenza), trovando altri pezzi dello stesso mosaico che non vorrei per alcuna ragione al mondo completare! Certe accumulazioni non sono collezioni, ma solamente passi che si aggiungono a quelli già percorsi. E chi potrebbe dire (o voler sapere) dove finisca la strada?
Angelini, filosofo, contadino e scrittore, tratta il Sacro come questo merita, senza conferirgli titoli onorifici in netta contrapposizione alla sua natura popolare, rispettando invece quelle separazioni che, finché vengono usate per sé stesse, frammentano la realtà ma, ricondotte alla loro potenzialità unitiva, non sono più distanze ma divengono principî generanti, capaci di inabitare ambiti quotidiani di pensiero, di parola e di azione. In aperta battaglia contro ogni facile assimilazione, contro ogni violenta generalizzazione, contro quelle parole disincarnate che qualche volta vestono il nulla, l’opera letteraria di Massimo Angelini è una cura (e culla) intellettuale capace di partire dal basso, come un vangelo sinottico. Questo ne fa un contributo tutt’altro che elitario, anzi, alla portata di ogni buon lettore che – semplicemente – intenda acquisire coscienza della portata culturale e spirituale del proprio passatempo preferito: quando la lettura diventa qualcosa di più che un semplice sfogliare di pagine, e si propone come un percorso di conoscenza.
Contemporaneamente, si scopre che il contesto rurale (che fa da sfondo non solo agli scritti di Angelini ma a quelli di Pentàgora in generale) non è solo un ripiego stilistico, una quinta di teatro su cui si gioca la commedia della parola scritta, ma un orizzonte privilegiato, un “campo” per la semina, un punto di partenza necessario. Il Maestro La Cava, Vladimir Propp, Simone Weil, di cui abbiamo già parlato, avevano cercato di dircelo in tutti i modi, e c’erano riusciti benissimo! Il Sacro parte dalla terra, sempre! Per questo, in questi giorni consacrati al Natale, facciamo nostro l’antico grido d’Avvento, che può qui ricongiungersi finalmente con il suo significato più culturalmente spirituale: Apriti o terra, e germina il Salvatore!
L’auspicio del bene attraverso la Parola
Se a Natale si celebra una Parola diventata Carne e Pane, dove il contesto è quello di una grotta, di una mangiatoia, e di un viavai di pastori, non si può non pensare ad una triangolazione di significati che riporti il discorso sulla cultura entro i margini del suo stesso Paradigma.
Dove c’è la Parola, c’è un linguaggio, ci sono delle relazioni di significato e di sentimento. Dove c’è una grotta c’è la povertà di un popolo in attesa, che è quello semplice dei campi e delle notti vegliate ad aspettare l’aurora, lì dove semplici pastori erranti contemplano pensieri metafisici, senza neanche saperlo. Dove c’è una mangiatoia, c’è un Verbo appena adagiato, proferito da un ventre, che può essere scritto, ascoltato, raccontato, e di cui sarà possibile nutrirsi e sentire il sapore.
Sì, c’è del Sacro in Massimo Angelini, e ho pensato che il Natale fosse il momento migliore per farvelo conoscere. Attraverso di lui, e con LuciaLibri, Vi porgo i miei migliori auguri! Un auspicio di bene, e di realizzazione nel Bene, soprattutto quando questo passa dal sacro di una Parola.