Con dolore e con incoscienza, senza filtri e senza indulgenze Fuani Marino si racconta in “Svegliami a mezzanotte”, libro intimo e politico. Nel memoir ricorda il suo tentato suicidio e prova a comprenderlo col conforto della letteratura, col culto non della pacificazione, ma di un equilibrio precario. E mette sotto i riflettori chi vive il disagio psichico ed è emarginato, celato agli occhi dei più
Ammantare la vita di letteratura è uno dei migliori modi possibili per tenere a bada demoni e dolori. Quando si ha l’anima frastornata o il corpo fracassato, quando si è senza alibi e non si percorrono scorciatoie, trovare ancora una ragione, anche l’ultima, nei libri che abbiamo letto, nei libri che leggeremo, è una strada che può condurre alla salvezza, una possibilità. Solo chi ha vissuto pienamente può comprenderlo. Solo il caso ha salvato Fuani Marino dalla morte, come lei stessa racconta in Svegliami a mezzanotte (168 pagine, 17 euro), un po’ memoir e un po’ saggio, pubblicato da Einaudi. Il resto l’ha fatto lei, non arrendendosi al silenzio e nemmeno alla retorica, facendo i conti con i tanti ricordi di episodi depressivi, con gravi guai fisici, cicatrici, operazioni, riabilitazione, col giudizio altrui. Non con certezze, non con risposte ma con tentativi di risposte, con dubbi, con la mancata accettazione di se stessi: «… ancora oggi non ho capito esattamente come convivere con me stessa. Posso solo dire che è una convivenza difficile».
Tra sgomento e vergogna, capire la vita
Ho letto Svegliami a mezzanotte poco dopo la sua apparizione in libreria. Ne scrivo adesso. Il tempo trascorso a rifletterne, a pensarci (e a vivere, naturalmente) è un lungo ringraziamento all’autrice del libro e del gesto più difficile da comprendere, un tentativo di suicidio nell’estate del 2012, pochi mesi dopo essere diventata madre; un volo da dodici metri, da un balcone: «Mi sono affacciata guardandomi intorno per poi voltarmi: il mio bacino toccava la ringhiera, credo di essermici seduta; sentivo il vuoto oltre le mie spalle…». L’umanissimo libro di Fuani Marino (qui un suo consiglio di lettura per il nostro canale YouTube) aiuta a comprendere la vita, più che la morte, pur non riuscendo ad aggrapparsi alla ragione, pur pulsante di sgomento e vergogna. E lo fa coadiuvata da intellettuali (Woolf, Sontag, Pavese, Franzen, Freud, Plath, Toews, Didion, DFW, Primo Levi), artisti, medici, citandone il pensiero, e riflettendo attorno a esso, per provare a rispondere a tante domande. Non cerca applausi, Fuani Marino, ma mira ad annientare l’isolamento e l’emarginazione di chi soffre di disagi psichici, come il suo disturbo bipolare, e nel mondo contemporaneo, nella società italiana, gode di scarsissima attenzione: sono pagine politiche, che vanno dagli effetti dei farmaci al tema del suicidio assistito, passando per un racconto della sanità, ampio spettro di medici e operatori, empatici o superficiali. L’autrice dà visibilità a più di un tabù, tacere e nascondere, nascondersi, non è consentito, non è dignitoso. Nessuno, probabilmente può restare indifferente, storie ed esperienze, anche in minima parte, possono condurre a tutti noi, a piccoli e grandi mali, che covano e possono esplodere e tornare, riesplodere.
Prosa analitica e amore materno
Con prosa analitica la “sopravvissuta” Fuani Marino racconta, probabilmente, la parte di se stessa che è comunque morta, e un’altra, consapevole e desiderosa di comprensione, di nuovi equilibri, che è nata. Con dolore e con incoscienza, senza filtri e senza indulgenze, percorre strade colme di malesseri e vuoti – tanta serenità apparente, un percorso di studi, un’accidentata precaria professione, un matrimonio, la prospettiva di una vita agiata, la nascita di una figlia, una depressione post-partum – e oltrepassa confini d’inquietudine, si confronta col suo ultimo desiderio, morire, col conforto della letteratura, col culto non della pacificazione, ma di un equilibrio precario, della verità come voglia di sopravvivere al vuoto, mai edulcorata, anche dolorosa, la stessa che, con vero amore materno, promette di dir sempre alla figlia Greta, chiamata in causa nelle pagine finali del libro.
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