Nel suo secondo romanzo, “Il grande me”, fortemente autobiografico, Anna Giurickovic Dato indaga i rapporti fra un padre morente e una figlia che ha fatto i conti con la sua assenza: “Ho vissuto molto tardi l’esperienza della riduzione del padre a umano. Mio padre è stato un Dio. Dopo la sua morte ho desiderato fortemente di essere me stessa in divenire, mai altro da me stessa, mai l’idea tradita di me stessa”
L’agonia di Simone, un padre non molto presente nella vita dei figli, una famiglia travolta e annichilita dalla malattia. Carla che, come i fratelli Mario e Laura, accorre al capezzale paterno e in qualche modo vuol provare a riallacciare i fili di un rapporto complicato. Con Il grande me, pubblicato da Fazi, Anna Giurickovic Dato (nella foto di Jacopo Golizia) ha confermato il talento del suo debutto exploit, La figlia femmina, edito dalla stessa casa romana. Libro intenso, intimo, doloroso, che non passa inosservato, Il grande me, non va letto a cuor leggero, va scoperto e, in questo, ci aiuta l’autrice, Giurickovic Dato (qui i suoi consigli di lettura sul nostro canale Youtube).
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Anna, come spesso capita in questa rubrica, vorrei iniziare col chiederti la genesi del titolo: perché Il grande me?
«Quella del titolo Il grande me è stata una trovata del mio agente, Marco Vigevani, che mi ha da subito convinto perché mi pare sintetizzi molto bene tutti i “grandi me” di questa storia. La domanda che ricevo più spesso è: “ma il grande me è Simone o Carla?” Vorrei rispondere sempre: “Chieda a Vigevani”. Credo che il valora sia simbolico, ci sia il grande me egoico di Simone, il grande me scavato nei ricordi e quello assunto a sostituto in un momento in cui la grandezza si assottiglia e sbiadisce nella morte. Vi è, poi, la grandezza di tre ragazzi che devono dapprima inventarsi un padre (grande) e poi lasciare che questo padre venga distrutto».
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Il rapporto tra la protagonista del romanzo, Carla, e il padre Simone, malato terminale, è il perno attorno a cui ruota tutto, ma la storia è anche un’immersione nel proprio vissuto, un’introspezione dolorosa attraverso la quale Carla è costretta a fare i conti con sé stessa. Da cosa nasce questa urgenza?
«L’urgenza nasce, non posso negarlo, dalla mia esperienza personale che è stata un’introspezione dolorosa. Qualcuno ne ha parlato come di un romanzo di formazione, nonostante l’arco narrativo percorra una durata di pochi mesi: la malattia, la morte, l’accompagnamento in questa esperienza provoca, in Carla, una crescita interiore che non può non ritenersi una formazione. Simone, invece, ripercorre una formazione che è già avvenuta e, pian piano, la deforma».
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In una recente intervista hai detto che Il grande me ha una forte connotazione autobiografica. Era immaginabile, ma spiegaci un po’ meglio in che termini…
«Ho perso mio padre di cancro al pancreas, la diagnosi ha coinciso con la prognosi che è stata subito infausta. La prognosi non ha coinciso con la realtà perché, nonostante gli avessero dato due mesi di vita, ha resistito più di un anno. Quindi la mia vita si è interrotta per un anno».
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Permettimi un volo pindarico, ma è un link spontaneo, per quello che è il mio bagaglio culturale: balzo dalla narrativa e dai sentimenti umani che nel tuo romanzo affronti con lucida durezza, alla biologia e alle regole che la Natura ci impone (morte compresa): il biologo francee Jacques Monod ne Il caso e la necessità (1970) sostiene che il senso della vita non è altro che “vivere e sopravvivere nella propria discendenza, anche a costo di morire”. Volendo sintetizzare brutalmente, Simone – che giace in un letto di morte circondato dalle figlie – come si sarebbe posto nei confronti di questa citazione d’impronta darwiniana? E tu personalmente, cosa ne pensi?
«Simone è un Monod cieco: sostiene, più di tutti, che il senso della vita sia sopravvivere nella propria discendenza, eppure i suoi discendenti non gli bastano, al punto che ne inventa un altro: un discendente che ne sia la copia, un piccolo Simone che possa sopravvivergli, un avatar perpetuo e immortale. Vi è poco di darwiniano in questa sua invenzione. Eccola la parte di formazione di Simone: riscoprire il senso dell’ascendenza e della discendenza; comprendere che essere padri non significa dare un nome e un senso alla vita dell’altro, ma apprendere il nome e il senso originali di cui il figlio, distinguendosi dal padre e persino distruggendone l’immagine, ha saputo dotarsi».
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Nel tuo primo lavoro – La figlia femmina, esordio eccellente e sorprendente – trattavi un tema delicato e scivoloso, quello degli abusi in famiglia. Ne “Il grande me”, come dicevamo, ti misuri con una grande perdita che genera un grande dolore. C’è sempre una figura paterna sullo sfondo, anche se le storie e i personaggi dei due romanzi sono totalmente differenti. Viene spontaneo chiedersi però, che rapporto hai avuto con tuo padre, come e quanto ti ha influenzato, cosa hai ereditato da lui?
«Sono sempre stata un’Elettra e ho vissuto molto tardi l’esperienza della riduzione del padre a umano. Mio padre è stato un Dio e poi, quando brevemente non lo è stato più, è divenuto l’ombra di un Dio: è molto doloroso inseguire un’ombra. Da lui – e Recalcati sarebbe fiero di questa mia risposta – ho ereditato il desiderio: soprattutto dopo la sua morte ho desiderato fortemente di essere me stessa in divenire, mai altro da me stessa, mai l’idea tradita di me stessa. Credo sia un’eredità enorme».
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Si dice sempre che le figlie femmine abbiano un rapporto speciale, più intimo e profondo, col padre piuttosto che con la madre. È qualcosa di vero o è solo un luogo comune? E se sì, perché?
«Ho un rapporto forte con entrambi. La madre – nel disegno freudiano – è l’elemento di disturbo che si interpone tra la figlia e il padre; la madre genera conflitto, il padre meno. Ho un rapporto molto più conflittuale con mia madre, il che non significa sia meno forte o meno speciale. Il connubio di entrambi mi ha sempre dato la misura di chi fossi e di chi sarei o non sarei diventata. Entrambi hanno rappresentato e disegnato i miei confini, per emulazione o per contrasto, e non sarei chi sono se non avessi avuto la possibilità di definirmi a partire da loro».
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Volendo suggerire un percorso di lettura a chi sta leggendo questa intervista, da chi sei stata ispirata o influenzata nella stesura de Il grande me, quali autori e/o romanzi ti senti di consigliare?
«Ti rispondo con cinque titoli: La morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj, Il male oscuro di Giuseppe Berto, Una questione privata di Beppe Fenoglio, Edipo Re di Sofocle e Lettera al padre di Franz Kafka».