Paladina di una letteratura militante, critica nei confronti del neoliberismo e del capitalismo, la cilena Diamela Eltit è autrice di “Manodopera”, percorso difficile, ma da intraprendere con urgenza. Protagonisti alcuni dipendenti di un supermercato – eden per il consumatore, inferno per chi ci lavora. Chi legge punta l’occhio guardingo dove con maestria la scrittrice glielo dirotta. Coglie con limpidezza il marcio e, infastidito, condanna…
«Io scrivo libri e i miei libri non hanno bisogno di me, hanno bisogno degli altri, in quell’incontro casuale che distingue la lettura». Parole di Diamela Eltit, una delle maggiori scrittrici cilene viventi, pronunciate nel declinare l’invito al Salone di Torino. Far parte della delegazione cilena, per lei ”ontologicamente” oppositrice della destra al governo all’epoca del fatto, la stessa destra in passato connivente con il regime di Pinochet, avrebbe significato farsi indirettamente portavoce, come rappresentante nazionale, di una parte politica dalla quale rivendicava le distanze. Era il 2013. L’editrice Atmosphere libri tentava di introdurre al pubblico italiano Diamela Eltit con il romanzo Imposta alla carne, tradotto da Natalia Cancellieri. Un esperimento poco fruttifero ai fine del guadagno di notorietà. Eltit rimase purtroppo un’autrice misconosciuta. A ritentare la mediazione tra lei e i lettori, ad assumersi nuovamente l’onere di conciliare l’incontro auspicato, sette anni dopo, è Polidoro editore, che porta nelle librerie Manodopera (168 pagine, 16 euro), tradotto da Laura Scarabelli.
L’esilio interiore
Diamela Eltit, nata a Santiago del Cile nel 1949, una vita dedicata alle lettere, è stata docente di castigliano, per un breve periodo addetta culturale presso l’ambasciata cilena a Città del Messico, ed è saggista e scrittrice. Ha vissuto gli anni bui della dittatura rintanata in quello che definisce “inxilio”, esilio interiore, facendo della sua attività intellettuale, della scrittura soprattutto, uno strumento politico. Popolarissima in tutta l’America Latina presso quanti condividono la sua critica al sistema neoliberista, merita uno spazio maggiore anche nel nostro emisfero, dove è forte e sentito il bisogno di una letteratura militante.
Diamela Eltit predilige approfondire gli effetti del capitalismo sul proletariato utilizzando ambientazioni fatte di luoghi malmessi, claustrofobici, ostili. La sua narrativa è giocata su una sperimentazione linguistica e sintattica estrema, ostinatamente refrattaria a compromessi e a semplificazioni, scarsamente attraente, purtroppo, sia per la filiera editoriale, sia per il più vasto pubblico “generalista”, a caccia di prodotti poco complessi. Manodopera è il romanzo-paradigma della sua scrittura. È la perfetta porta di accesso all’universo dei suoi “libri culturali” – lei stessa li definì in questo modo – includendone tutti gli elementi tipici.
Sotto il titolo Manodopera sono riunite due distinte sezioni narrative.
Individuo vessato e vessatore
La prima, Il risveglio dei lavoratori, si articola in otto capitoli-monologhi nei quali il dipendente di un supermercato, con una voce allucinata al limite della schizofrenia, sincopata e spesso trasgressiva, dove parole e struttura della frase non seguono un andamento convenzionale, sintetizza una sua giornata lavoro, metafora della sua stessa condizione di oppresso e al contempo oppressore in quanto ingranaggio del sistema. «Io faccio parte del supermercato come materiale umano accessibile», dice da vessato, ma poco dopo aggiunge da vessatore: «L’attività a cui mi dedico consiste nell’assecondare i supervisori e stigmatizzare i clienti».
Masse e dinamiche disfunzionali
La seconda sezione, Puro Cile, è ancora rappresentazione del rapporto tra potere e lavoratori, ma segna una progressione ulteriore. Se, infatti, ne Il risveglio dei lavoratori domina il tema dello schiacciamento dell’individuo, qui Eltit passa a rappresentare l’effetto immediatamente successivo, ovvero il controllo e l’emarginazione delle masse.
Mette quindi da parte il soliloquio, che esprime una prospettiva soggettiva e si allarga ad una dimensione corale. I protagonisti della seconda sezione, infatti, diventano ben sette: Enrique, Sonia, Isabel, Gloria, Gabriel, Andrés e Pedro. Sono colleghi e coinquilini. Lavorano, con mansioni differenti, anch’essi in un supermercato – luogo simbolo delle storture del neoliberismo, eden per il consumatore, inferno per la manodopera – e coabitano, per ragioni di convenienza economica, sotto lo stesso tetto. Nella casa, traslato del tipo di spazio asfissiante, angusto, difficile da sopravvivere, centrale nella produzione di Eltit, va in scena una sorta di grande fratello televisivo. Tra scambi di confidenze, alleanze, tradimenti e complotti, le dinamiche disfunzionali dei protagonisti replicano fedelmente, a danno l’uno dell’altro, le angherie subite al lavoro in nome della produttività e della massimizzazione del profitto. Diversamente dallo spettatore dello show che assiste divertito e coinvolto, il lettore di Eltit punta l’occhio guardingo dove con maestria la scrittrice glielo dirotta. Coglie con limpidezza il marcio e, infastidito, condanna.
Manodopera non è un percorso facile. È un accidentato cammino in salita. Eppure oggi abbiamo l’obbligo di intraprenderlo con una certa urgenza, essendo giunta l’ora di riprendere coscienza della realtà brutale che si profila immutata all’orizzonte.
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