Con il romanzo “La mischia” Valentina Maini sfoggia un’originalità e una ricchezza, di stile e contenuti che ha del sorprendente per un’autrice al debutto, una storia con il doppio e il triplo fondo a livello strutturale. “La mischia” è un romanzo dallo stile frattale, sulla libertà, su uno scontro generazionale e pedagogico, un romanzo di sparizioni e fughe, di disgiunzioni e separazioni. Protagonisti una sorella e un fratello, gemelli, enfants terribles, figli di militanti dell’Eta, tra i Paesi Baschi e Parigi
Da sempre il problema nella letteratura, che poi non è un vero problema ma un fatto, con le conseguenti complicazioni che ne scaturiscono in un romanzo degno di questo nome, è capire chi fugge da chi. Se la letteratura dalla vita o viceversa. Questo è valido per la letteratura di tutti i tempi e ancor più per quella contemporanea forse. Ce lo insegna Bolaño, la cui grandezza continua a generare una fornita schiera di epigoni che se non tracceranno le stesse rotte dei suoi Detective selvaggi quantomeno provano a seguirne la scia. Non è il caso di Valentina Maini, la quale avrà anche lei i suoi padri putativi, più o meno inconsapevoli o riconosciuti, magari proprio Bolaño o per stare ancora più sul contemporaneo Mathias Énard, oppure, per rimanere ancora sui più recenti, il Rodrigo Fresan de La parte inventata (Liberaria) (ne ho scritto qui). Tutto questo, anche se forse non è così importante, ce lo potrebbe dire solo Valentina Maini, l’autrice de La mischia (496 pagine, 18,50 euro) il romanzo uscito per Bollati Boringhieri lo scorso febbraio che dimostra un’originalità e una ricchezza strutturale, di stile e contenuti che ha del sorprendente per un’autrice all’esordio. Struttura (ne parleremo), stile e contenuti, non manca niente in un’opera che si presenta apparentemente (apparenza è una delle parole chiave da tenere a mente per una tentata decifrazione del romanzo) come una “semplice” storia familiare, come in un canonico romanzo borghese, per quanto questo stia a significare, per quanto esista qualcosa del genere in natura (letteraria).
La famiglia e molto altro
La famiglia è l’alpha e omega anche nel romanzo della Maini (in questo video per LuciaLibri i suoi consigli di lettura). Per quanto se ne possa dire la famiglia rimane, pur nelle forme storicamente determinate e continuamente mutevoli, la cellula fondamentale della società, fin dai tempi preistorici. Ne La mischia c’è una famiglia all’inizio e ce n’è un’altra alla fine, la stessa, ma che si è trasformata, che la mischia e i gap generazionali e storici hanno stravolto, rendendola irriconoscibile sebbene ancora radicata nei suoi elementi e componenti fondamentali, per quanto ormai disgiunti. La famiglia quindi, banale no? Ma in mezzo c’è molto, molto altro, prima di tutto la struttura appunto.
Il romanzo è diviso in tre parti: prima, seconda e la terza che è un breve finale di ventitré pagine, breve se in relazione al totale delle 496 del romanzo, finale che ha il sapore di un’epifania e allo stesso tempo una spiazzante rimessa in discussione di tutto quello che abbiamo letto fino ad allora, perché La mischia è un romanzo con il doppio e il triplo fondo a livello strutturale, un modello quantistico applicato alla narrativa.
Un romanzo nel romanzo
La scrittura segue ed è seguita, affianca ed è affiancata dalla realtà, come due strade complanari che alcune volte collidono, si intersecano, si contaminano a vicenda e in altre si allontanano l’una dall’altra. Il plot del romanzo, perché ce ne è uno, ed è bello e denso, scaturisce da un romanzo scritto da Dominique Luque, un autore della borghesia parigina la cui figlia è stata ricoverata in ospedale a seguito dell’incendio a un teatro da lei stessa appiccato. Il romanzo nel romanzo dal titolo Entanglement «parla di persone che rimarranno legate per sempre» ha risposto Germana sorridendo «É un fenomeno che ti spiegherò, roba di particelle». Entanglement è un fenomeno quantistico. Il romanzo è per buona parte la narrazione “reale” di fatti accaduti, per un’altra è la stessa di Entanglement, il romanzo fantasma. É la storia di Gorane, una ragazza che per la sua patologia dissociativa, le sue visioni e la sua (significativa) scrittura a specchio, che la porta tra l’altro a scrivere sui volantini le stesse cose lì riportate, è in cura presso uno psichiatra danese (cosa ci fa un danese a Bilbao?), perché parte dell’ambientazione sono proprio i Paesi Baschi, Euskadi, quelle terre dilaniate per anni dal terrorismo. I genitori di Gorane e Jokin, il suo fratello gemello, sono membri dell’ETA, l’organizzazione indipendentista e separatista che ergendosi a paladina delle rivendicazioni del popolo basco, per oltre cinquant’anni ha insanguinato le terre di Spagna.
Il fratello sparito
La narrazione dei fatti è collocata storicamente tra il 2007 e il 2008. Jokin è sparito, se ne è andato a Parigi abbandonando la sua famiglia in Euskadi. Jokin, del quale Gorane ci parla (è tramite il suo racconto che essenzialmente si forma la sua figura) e del quale va alla ricerca uscendo dal suo guscio è «Il suo fratello acqua. Il suo elemento è la fuga». La mischia è anche un romanzo sulla libertà, su uno scontro generazionale e pedagogico. La mischia è quella della vita, oltre che del materiale stilistico e letterario che caratterizzano il volume, un romanzo di sparizioni e fughe, dai Paesi Baschi a Parigi che ne diviene lo sfondo principale, la capitale francese espressione stessa della mischia della vita e della ricerca di Gorane del fratello, un batterista dipendente dall’eroina, proprio nella ville lumière, dove Jokin è fuggito trovando lavoro come “buttafuori” presso il Centro Pompidou, una Parigi in questo caso per niente scintillante, tra vagoni della metro nei quali i passeggeri fissano continuamente un punto nel vuoto, spacciatori, tagliatori di valigie. Gorane, la quale dirà: «L’unica mia dipendenza è Jokin, se lui non esistesse io non saprei cosa significa dipendere da qualcosa o da qualcuno», si getta nella mischia seguendo una pista letteraria, quindi inaffidabile, per ritrovarlo.
Spazi liberi in cui sbagliare
La mischia è anche un romanzo di disgiunzioni e separazioni. L’idea originale del titolo era infatti Separazione. É la separazione dei due gemelli, dei figli dai padri e dalle madri, nel caso di Gorane e Jokin due militanti di un’organizzazione terroristica, la cui stessa fatale sorte rimane nell’indeterminatezza (suicidio o omicidio per mano della stessa figlia?), quei genitori dei quali dirà Gorane: «volevano rimanere nella storia distruggendo la storia», quei genitori che diranno (nel terzo capitolo della prima parte sono loro a parlare):
Poi abbiamo detto che la cosa più importante nella vita è imparare a non legarsi mai a niente. Dovete imparare che niente dura, così diventerete persone forti e ve la caverete nella vita
e ancora:
Non abbiamo dato strumenti ai nostri figli ma solo spazi liberi in cui sbagliare. Non abbiamo aiutato il nostro paese ma abbiamo approfondito la sua ferita. Siamo stati pericolosi e mortali per chi ci è stato vicino. L’amore non ha contato niente.
Il senso della parola libertà
Ma sarebbe riduttivo pensarlo come un romanzo su uno scontro generazionale e del resto di questi temi sono pieni gli scaffali delle librerie come lo sono di quei libri sulle cosiddette famiglie disfunzionali, benché quella di Gorane e Jokin possa essere definita tale. In questo caso è infatti il tema della libertà a entrare in gioco e a costituire uno degli assi portanti dell’intero romanzo. È la libertà di Gorane e Jokin, nati in un ambiente libertario e antagonista, con tutti gli effetti che ha avuto nel loro caso, dissipatore e disperato, è la libertà, o presunta tale, delle generazioni dei ventenni o dei trentenni di oggi, con tutti i possibili raffronti con quella delle generazioni precedenti. Il romanzo è quindi anche un interrogarsi sul senso della parola libertà, senza la necessità e la volontà dell’autrice di fornire delle risposte in merito, risposte che tantomeno i genitori dei due gemelli sanno fornire, cosa che trova un’espressione stilisticamente impeccabile in molti brani del capitolo a loro dedicato tramite l’espunzione della punteggiatura, dando alla loro voce un effetto quasi soprannaturale, lo stesso effetto fantasma che si può trovare in Dalle rovine di Luciano Funetta, assumendo la voce dei due militanti dell’ETA un aspetto ancora più strano, libero all’eccesso, senza una segnaletica interna precisa.
Una scrittura che si nebulizza
Gorane e Jokin sono due ferite, due enfants terribles che ricordano per certi versi i fratelli de Il giardino di cemento di Ian McEwan, due particelle quantiche, come quelle della terra basca che li ha generati, una terra divisa in due, con Gorane che si mette sulle tracce del fratello diventando persino spacciatrice di sostanze proibite per arrivare a lui. Dirà Gorane:
L’unica persona che ho amato davvero, nella mia vita è stata mio fratello. Dopo che si è provato un tale amore per qualcuno, non si può amare nessun’altro
La Parte seconda è divisa in due movimenti, primo e secondo, come quelli nella musica classica di una sonata o di una sinfonia troncata a metà, interrotta. Circa questi due macrocapitoli vale ancora un accenno alla struttura e allo stile che sono le parti più interessanti del romanzo di Valentina Maini. È da qui in poi, rispetto alla narrazione “classica” che segue i diversi punti di vista dei personaggi della prima parte, che tutto si complica: lo stile diventa frattale, tra referti di ospedali, verbali di commissariati di polizia, registrazioni di conversazioni, brani di e mail, diari, resoconti di psichiatri, le tracce disseminate per Gorane alla ricerca del fratello, come in una caccia al tesoro, una scrittura che si nebulizza e si scioglie fra atmosfere bolaniane dietro lo specchio del gioco letterario:
Guardi che è importante. È scomparsa una donna. La protagonista di un romanzo. Non si trova più la protagonista di un romanzo famoso.
Questo dirà Gorane mentre è alla ricerca di Germana, la figlia dello scrittore Dominique Luque, l’autore di Entanglement.
Un grande rimescolamento
L’espediente meta letterario crea un avvolgente e aleatorio effetto phasing, straniante e allucinatorio. Dirà Gorane a proposito dello scrittore: «Ho lasciato fossati nel mio racconto che pare lui abbia riempito». Il codice, il percorso metanarrativo è tra gli elementi più affascinanti dell’esordio della Maini, Un libro che parla anche di come fare letteratura, del suo essere un lavoro artigianale, come lo stesso lavoro editoriale, bellissime ed esilaranti in tal senso sono le pagine con la sparata e il j’accuse dell’editore allo scrittore di Entanglement e per esteso a tutti gli scrittori, un meta letterario non fine a se stesso e una dilatazione dello spazio narrativo ben calibrato, che mantiene in piedi la struttura del romanzo per tutte le quasi cinquecento pagine, cosa non banale, fino all’epifania della Parte terza, quelle pagine che sembrano parlare di una qualche pacificazione e ricongiungimento, ma forse sono solo un grande rimescolamento di carte, l’ennesimo per questo romanzo senza punti fermi e certezze, sorprendente e bellissimo esordio di Valentina Maini al quale, rompendo forse il bon ton della recensione, mi sento di augurare le migliori fortune e lunga vita, al romanzo e ai personaggi nella mente (o altrove) dei lettori.
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