Un orrendo delitto, una ragazza decapitata, un caso chiuso troppo in fretta. Ma un vecchio giornalista, seguendo il proprio fiuto ancestrale, la pensa diversamente, ed è disposto a sacrificare tutto, anche la vita. In “Oregon Hill” di Howard Owen il flusso della scrittura trscina il lettore e lo conduce a una verità inequivocabile…
Nel fiume South Anna, non un gran fiume e «quell’autunno aveva piovuto meno del solito», viene ritrovato un corpo decapitato, è quello di Isabel Ducharme, più tardi la sua testa verrà rinvenuta in un pacco postale destinato ai suoi genitori. Sul caso arriva ad indagare Willie Black, cronista di nera, forse a fine carriera, ma che sogna ancora di ritrovarsi, un giorno, dietro ad una scrivania del Washington Post. Il caso è scottante, la città ne è sconvolta e tutti sembrano farsi le stesse domande: «Perchè qualcuno dovrebbe rapire una ragazza, ucciderla e gettarla nel South Anna per poi lasciarla in balìa degli uccelli e dei ratti? E perchè, nel nome di dio, dovrebbe tagliarle la testa?». Isabel Ducharme aveva lasciato la periferia di Boston e si era trasferita da poco a Richmond per frequentare l’università locale, «un piccolo ateneo che attira uno scarso numero di studenti da altri stati, ma per qualche ragione Isabel ha scelto di trasferirsi».
Fantasmi del passato
Nel giro di poche ore viene arrestato Martin Fell, il ragazzo con cui Isabel Ducharme aveva appuntamento quella sera e per questo risulta essere il maggiore indiziato dell’omicidio. Eppure c’è qualcosa in questo caso che non suona limpido alle orecchie di Willie Black, «ci sono quelli che si consegnano alla legge piangendo come bambini e dichiarandosi colpevoli. E poi ci sono quelli che escono da uno stanzino con un paio di agenti dopo essersi fatti lavare il cervello per qualche ora», per questo e per altri motivi si decide ad avviare un’indagine parallela, convinto a fugare ogni dubbio, in particolar modo quelli che affollano la propria mente. Con il caso Ducharme tornano a galla i fantasmi del passato e Willie Black sa che nessun dettaglio può essere scartato, proprio lui che è cresciuto a Oregon Hill e niente è stato facile a partire proprio dalla sua infanzia, «crescere nel nostro quartiere non era facile per nessuno. Se tuo padre era un afroamericano senza fissa dimora, le cose peggioravano in modo esponenziale». Intorno a lui la vita a Oregon Hill non sembra cambiata molto. Ci vive ancora Peggy, sua madre e suo marito Les Hacker, ex giocatore di baseball, che dopo aver lasciato la squadra «si mise a lavorare sui tetti», gli stessi tetti per cui ancora oggi ha una predilezione.
Mamma Peggy
«Chi è cresciuto in un microcosmo in cui si seguono certe regole – sottolinea Chiara Baffa, traduttrice del romanzo Oregon Hill (288 pagine, 18 euro) di Howard Owen, edito da NN – non riesce mai davvero a togliersi di dosso quel particolare odore: la vecchia collina continua a esercitare il suo potere da lontano […] I diverbi si risolvono ancora venendo alle mani» e l’onore è una cosa seria. I ricordi che tornano in mente a Willie Black sono i più disparati, dalle risse con gli altri bambini, alle domeniche trascorse a casa, «era il giorno della settimana che preferivo. Tanto per cominciare, era il più silenzioso. Come in un vecchio paio di pantofole, era facile scivolarci dentro senza troppi traumi. Chiunque dormisse con Peggy si alzava tardi e con calma. Domenica voleva dire fumetti e toast alla cannella. O almeno è così che la ricordo». Cresciuto senza un padre, convinto che «la nostalgia è una maledetta carogna che si insinua dentro di te e spazza via ogni rancore facendoti ricordare solo le cose belle», e una di queste cose belle che gli torna in mente a proposito di sua madre: «a dodici anni la colazione era già compito mio. Avevo un repertorio limitato – a volte cuocevo le salsicce invece del bacon – ma Peggy non ci badava. Ogni lavoro che aveva fatto iniziava verso le sette o le sette e mezza, così usciva dandomi un bacino quando ancora mi stavo preparando per la scuola. Le pulivo la bocca dagli inevitabili resti di uovo e lei si chiedeva ad alta voce cosa avrebbe fatto senza di me. Credo che abbia ancora lo stesso tostapane e la stessa padella che usavo nel 1972».
Il giornalista che ascolta le storie
Nei giorni seguenti al rinvenimento del cadavere in redazione si presenta la stessa routine. Una brutta aria perché pare che siano in prossimità nuovi licenziamenti, non manca chi vuole farti le scarpe o soffiarti il pezzo d’apertura e poi sembra di sentire tutto quell’odore di caffè e di sigarette fumate in solitudine, in attesa di riprendere a battere sulla tastiera del computer. E poi ci sono gli ultimi arrivati, più scaltri, che sanno ingraziarsi i capi e si ritrovano subito in prima pagina. Ma Willie Black è un giornalista fuori dal coro, capace di inseguire le notizie perdendo la cognizione del tempo, dorme poco, beve molto e fuma ancora di più. «Se i detective noir erano degli antieroi, Willie Black si potrebbe definire un anti-detective noir. Del maudit non ha niente, anche se beve e fuma in quantità – dice la traduttrice del romanzo – È impacciato, non ha il senso deduttivo del vero investigatore. E se è vero che due negazioni fanno un’affermazione, allora Willie diventa lo strano eroe di questa storia». Condivide un appartamento al Prestwould, «un mondo ipocrita dell’alta borghesia», con Custalow, un nativo americano che ha prestato servizio nei marine e oggi fa piccole riparazioni condominiali. La verità è che Black è un giornalista vecchio stampo, e si muove secondo regole che i giovani reporter hanno dimenticato: «io ascolto le storie di tutti. È una dote che, con esiti altalenanti, ho cercato di trasmettere ai cronisti più giovani. Fate lavorare le orecchie, dico sempre».
Quel blog e la vita in gioco
Mentre la polizia ha praticamente smesso di indagare, convinta di aver arrestato l’assassino giusto, Black riceve alcune imbeccate che lo portano a seguire un’altra pista. C’è un testimone che la sera dell’omicidio ha visto la ragazza, ma sarà attendibile? Ci sono storie del passato che tornano a galla, ma saranno veramente connesse al caso? Oppure un caso avventato del passato gli sta facendo prendere un abbaglio? Ma poi gli viene in mente che per smuovere le acque e per poter mettere nero su bianco le sue supposizione può sfruttare il blog, un luogo neutro in cui giocare l’ultima partita: «il blog mi è venuto in mente solo ora. Ce l’ho da mesi e non ci ho ancora scritto un parola. Al giornale hanno deciso che tutti i cronisti più importanti devono averne uno. […] Nel suo discorsetto ci ha tenuto a specificare che sul blog ” mi sarei potuto divertire”, che avrei potuto “uscire dagli schemi”, “andare sopra le righe”». Willie Black è perennemente in bilico fra allucinazioni, sensi di colpa, e un fiuto ancestrale, lui che ha il nome di un giocatore di baseball, seguirà il proprio istinto. Con un ritmo cadenzato, senza svelare necessariamente al lettore ogni dettaglio che Black scopre, ma lasciandolo a bocca aperta man mano che la sua indagine prende una piega inaspettata, Howard Owen lascia che sia il flusso della scrittura, come quello del fiume South Anna, a portare il lettore di fronte alla verità. Quella inequivocabile. Quella che Willie Black è deciso a scoprire a costo di sacrificare tutto, anche la propria vita.
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