¿C’è del sacro in… Maradona?

Maradona, come ogni uomo, è stato soprattutto qualcuno. È stato un uomo, non malgrado le sue contraddizioni, ma proprio grazie ad esse, senza le quali l’uomo non potrebbe essere tale. E genio meno che mai. In lui il riflesso di quei due grandi abissi che contraddistinguono la natura umana: la tensione al cielo, e il dramma della gravità; il celeste e il bestiale

Oggi il titolo di questo articolo porta con sé un punto interrogativo, come segno necessario all’intelligenza, quando questa non si accontenta solo di emozioni per esprimere un giudizio. E ne porta anche un altro, all’inizio della frase, in omaggio a chi, pur avendo il castigliano come lingua madre, scelse una Mamma d’altra lingua, le cui parole non gli risultarono mai incomprensibili, perché erano tutte parole d’amore, anche nei momenti più difficili, anche nei momenti in cui – per Maradona – nessuno fu più capace di quelle parole. Per carità, non quelle da tributare ad un calciatore, ma quelle necessarie ad ogni uomo.

Il sacro nell’impuro e una sinusoide…

René Girard, nume tutelare di questa rubrica, lo aveva ben sintetizzato quando, parlando del sacro, affermò due cose che qui, in particolare, mi sembra importante ricordare. La prima era che, diversamente da quanto si creda, il sacro non risiede solo nel puro; al contrario: l’impuro (il deforme, il colpevole, l’infermo, il traviato, il blasfemo, etc.) sa essere il contenitore per eccellenza di ciò che è sacro, perché è esclusiva proprietà del trascendente risiedere in quelle forme che, per una qualche ragione, il senso comune ha relegato esclusivamente al profano (senza neanche immaginare che sacro e profano siano concetti contigui, non opposti). Ne è prova il fatto che sacro era il bambino, ma anche il cadavere. Sacro era il sangue dei sacrifici, sacro quello mestruale. Non solo! Il sacro, al solo toccarlo, poteva rendere impuri. E questa è la prima cosa (e basterebbe per capire dove io voglia andare a parare). Ma ce n’è una seconda, ancora più puntuale in tutta questa faccenda: l’eroe – chiamato ad essere custode del sacro – poteva partecipare praticamente di entrambe le proprietà; poteva essere puro o impuro, poco importava, purché esercitasse pienamente il suo ruolo (a vantaggio di una “intelligenza” collettiva senza domande); e il suo ruolo prescriveva l’esaltazione prima, l’estrema umiliazione dopo, e la divinizzazione alla fine. Insomma, una sinusoide che si giocava tutta tra la confusa coscienza dell’eroe-colpevole-dio, e i fluttuamenti emotivi ed inconsci delle masse.

Tutti coloro che, in una qualche maniera, hanno occupato un posto nella strutturazione di un sistema culturale, sono passati da questi passaggi. Maradona non fa eccezione.

E noi siamo qui per chiarire l’essenza delle regole (se il sacro ne possiede), non certo per sostenere tutti coloro che in questi giorni, spostandosi da un estremo all’altro dello spettro, intendono affermare (o perché troppo moralisti, o perché troppo devoti) che Maradona possa essere stato “solo” qualcosa, rispetto a qualcos’altro. Maradona, come ogni uomo, è stato soprattutto qualcuno. È stato un uomo, non malgrado le sue contraddizioni, ma proprio grazie ad esse, senza le quali l’uomo non potrebbe essere tale. E genio meno che mai.

No alla superficialità delle tinte uniche

Quanto fa male, accidenti, in questi giorni, sentir parlare di lui con la tipica superficialità delle tinte uniche, che sono giustificabili nei bambini perché imparino a capire i concetti chiave in modo definito, ma che sono intollerabili quando, nella descrizione di un intero evento umano, non si tiene conto delle sfumature.

E così, per alcuni Maradona è solo il calciatore (e il solo calciatore), il messia partenopeo per eccellenza, il rivoluzionario in pantaloncini, artefice di un immenso riscatto sociale. Certo, perché – dopo il suo avvento glorioso – Napoli è stata redenta e non ci sono più stati disoccupati, né delinquenza, né inciuci, né povertà, né degrado… ma solo… “magistrali” elevazioni di una classe politica che era eroicamente discesa agli inferi, in mezzo agli ultimi, per poi liberarli dalla morte. Sicuramente. Magari Maradona avesse portato un riscatto sociale! Il riscatto, semmai, è tutto nel sorriso di chi, anche per un solo istante, si è sentito felice di vederlo giocare, e si è sentito parte di una parte vincente. Il riscatto è in chi, non avendo avuto altri in cui credere (perché non gliene fu data la possibilità), credette in lui.

Per altri, invece, Maradona è stato solo un calciatore (quindi non appartenente per definizione a qualsivoglia élite culturale abbia diritto ad un plauso), un miliardario corrotto dalla bella vita, un degenerato, un asociale, un immorale, un tossico, un violento, uno scorretto, un evasore fiscale, un terrone per nascita, per elezione e per acclamazione, uno che – cito – ha dilapidato i suoi beni con le prostitute, senza peraltro aver l’intelligenza – anche tardiva – di ritornare a casa a mendicare un tozzo di pane o di dignità.

E poi, come sempre avviene, più una categoria spinge su un estremo, più l’altra si arrocca esattamente all’estremo opposto, senza soluzione di continuità. Nel frattempo, le sfumature (che poi sono quelle che contraddistinguono l’uomo) vanno a farsi benedire insieme alle buone intenzioni e ai buoni esempi.

E ciò che mette ancora più rabbia sono le argomentazioni moraleggianti (che di morale non hanno nulla) a sostegno della difesa dell’educazione e dei modelli, dove anche solo un ultimo applauso in articulo mortis è da considerare di troppo, perché non si può dire bravo ad uno che si drogava.

Ma dai! Ed io che pensavo che il mondo oggi stesse salutando qualcosa di più che un tossicodipendente! Ma pensa che equivoco, io che ero convinto si stesse facendo un omaggio ad un genio del calcio, ad un volto diventato popolare senza mai staccarsi dal popolo, ad un uomo che preferì rimanere invischiato nelle sue fragilità piuttosto che incastrato in un mondo da cui non volle mai essere fagocitato!

Il buon senso non è il senso comune

Lo so, lo so… La parola “genio” è ancora troppo altisonante, sembra quasi una bestemmia se paragonata all’utilizzo che se ne fa con personaggi come Caravaggio, Baudelaire, Presley, Pasolini, Mercury, etc. Cito solo alcuni, già passati a miglior vita: tutte persone alle quali il titolo di “genio” è stato dato senza troppe difficoltà, forse perché ciascuno di essi non ha mai conosciuto alcuna ombra… Sicuri? Forse dovremmo rivedere i parametri, oppure continuare ad usare il buon senso. Che non è sempre (o quasi mai) il senso comune. Il buon senso ha la caratteristica di saper sopravvivere al senso comune, specie quando questo si ripara dietro modelli di comportamento precostituiti e, il più delle volte, irrealizzabili. Aristotele affermava che un uomo senza pregiudizi è una pianta; figuriamoci uno senza difetti.

Ultimamente è stata luminosa una lettura di James Hillman (Il codice dell’anima), dove si parla di vocazione, che è solo una delle parole da lui usate per riferirsi al daimon, al genius, o alla ghianda, sua categoria preferenziale; insomma, per riferirsi a quell’elemento spirituale (di heideggeriana memoria) che – semplicemente – permette ad un uomo di essere se stesso, e nient’altro da questo; permette ad un uomo di portare a compimento il suo sogno esistenziale, quello capace di realizzarlo. In questo libro egli traccia un elenco di personaggi pubblici, famosi, geniali ciascuno nel proprio campo, e tutti – chi più chi meno – terribilmente sregolati, e cioè disallineati, duri a saper resistere dentro un recinto che non fosse il loro.

Per Maradona, probabilmente, questo recinto è stato il campo di calcio. Ma attenzione! È stato il suo recinto personale di realizzazione, quello in cui volle sigillare la forma pura della sua propria genialità, ma è stato anche il recinto nel quale il mondo ha voluto confinarlo, così che fuori da esso egli non potesse essere nient’altro che un disadattato. Così, se Maradona si drogava, ciò era spiegabile solo a partire dal fatto che fosse uscito dal suo recinto. Non si riusciva, e non si riesce ancora, a capire che un uomo è uomo al di là di ogni perimetro che gli si possa erigere intorno, che l’umanità fa esperienza di sé stessa a prescindere dal proprio genio. Questo fa sì che un genio rimanga tale anche quando, in altri ambiti, potrebbe non essere un “esempio”. Potrei sembrare dissacrante (magari!), ma non posso farci niente se a guardare un quadro del Caravaggio mi commuovo, e in quel momento non me ne frega niente se sia stato anche un omicida. Del resto, chi noi penserebbe di poter essere un esempio in ogni cosa che fa, o in ogni istante della giornata? Al contrario, quando in qualcosa si eccelle, il genio si impone oltre il modesto senso comune, spiazzando, rompendo le righe. San Paolo sapeva dire di sé stesso sia «fatevi miei imitatori», sia «sono un aborto».

E – sia detto per inciso – una personalità come quella paolina è geniale a prescindere dalla sua conversione. Proprio perché autenticamente umana.

E invece no! Per certuni Maradona non sarebbe stato degno finché la sua conversione non fosse stata totale. Sembra di avere ancora nelle orecchie quel presidente della Camera a cui non andò mai giù che Bob Dylan… vabbè, lasciamo stare.

No alla canonizzazione, no agli anatemi

Dicevo, anche Papa Wojtyla si emozionava a veder giocare Maradona e sorrideva quando, in occasione di qualche visita ufficiale, leggeva sui giornali «Oggi il Papa incontra Dio»; ma non sorrideva parte del suo entourage. E così molte volte sceglieva di riceverlo insieme alla sua famiglia, ma di nascosto, per non mettere su impalcature mediatiche. Evidentemente, per lui, che non aveva la pretesa di dover aspettare ulteriori e obbligatori mutamenti di natura, Maradona era già degno. Perché umano.

Disumano, invece, è chi usa il proprio genio per votarlo al male. Disumano non è chi nel male inciampa, ma chi lo sceglie. E questa precisazione ci libera dal rischio di poterci sentire legittimati a giustificare chiunque solo perché umano. Hitler, Riina, Escobar, tanto per citarne un paio, scelsero di essere disumani, fino alla fine.

Maradona, per quanto terribilmente imperfetto, non mi pare avesse scelto il male. No, non credo proprio. Non ci sono motivi validi per la canonizzazione, ma neanche anatemi. Se per un attimo ci dimenticassimo della sua popolarità, della sua notorietà, egli ci apparirebbe incredibilmente nella media, senza tuttavia apparire mediocre. Ci sembrerebbe di rivedere in lui il riflesso di quei due grandi abissi che contraddistinguono la natura umana: la tensione al cielo, e il dramma della gravità; il celeste e il bestiale.

Arrigo Boito, in una sua meravigliosa poesia (Dualismo) dipinge perfettamente questa condizione, dipinge il dramma dell’uomo che, per dirla come San Paolo, si ritrova a fare ciò che non vorrebbe e a non fare ciò che vorrebbe:

 

Son luce ed ombra; angelica

farfalla o verme immondo,

sono un caduto chèrubo

dannato a errar sul mondo,

o un demone che sale,

affaticando l’ale,

verso un lontano ciel.

 

                                  Ecco perché nell’intime

                                  cogitazioni io sento

                                  la bestemmia dell’angelo

                                  che irride al suo tormento,

                                  o l’umile orazione

                                  dell’esule dimone

                                 che riede a Dio, fedel.

 

Ecco perché m’affascina

l’ebbrezza di due canti,

ecco perché mi lacera

l’angoscia di due pianti,

ecco perché il sorriso

che mi contorce il viso

o che m’allarga il cuor.

 

E queste sono solo le prime tre stanze; il capolavoro va letto tutto. Insieme a tutti i pochi buoni articoli che, per fortuna, sono usciti nel mare magnum dell’industria del gossip. Tra tutti, una commovente descrizione di Gianni Minà che mostra di essere uomo oltre che giornalista e prima che giornalista; come Maradona fu uomo oltre che calciatore e prima che calciatore.

Quel pianto del 1990

Ho voluto raccattare un po’ di cose buone, e non dire solo la mia. Ho voluto raccogliere suggestioni e suggerimenti di amici che ringrazio (Giovanni Di Marco; Maria Grazia La Malfa; Antonietta Molvetti), e soprattutto parlare con la libertà di uno che di calcio non ne capisce nulla, ma proprio nulla e dunque, se ha raccolto qualcosa di buono da Maradona, può dire di averlo fatto fuori dal recinto. Anzi, se proprio devo dirla tutta, l’ho anche odiato Maradona, profondamente, quando mi fece piangere in quella lontana estate del 1990, infrangendo il piccolo sogno di un ragazzino dodicenne che guardava (e tuttora guarda) solo i Mondiali. E che mai si sarebbe sognato, trent’anni dopo, di scrivere questo articolo.

Certo, a Napoli ci sono stato un paio di volte. So di quale affetto è capace quel popolo meraviglioso, e so di quale riscatto è desideroso perché il suo desiderio è uguale al mio. E so anche che, in ultima istanza, questa Città ha amato un uomo che, pur sapendo come ogni partita fosse un inferno di variabili, non si tirò mai indietro né dal promettere né tanto più dal mantenere. Era solo un calciatore… Mantenere le promesse non era la sua direttiva primaria, eppure alla fine conquistava la vittoria insieme alla sua squadra e al suo popolo. E quel popolo lo ha amato perché non tenne mai una vittoria tutta per sé: ne faceva parte a chiunque, sapendo di essere bravo, ma che la sua bravura non sarebbe mai potuta appartenergli in forma esclusivamente privata, perché se ne sentiva in qualche modo debitore. Sentiva che doveva spezzarla con gli altri. Pur essendo un genio del calcio, non rese il calcio più di quanto questo non dovesse diventare. Sapeva distinguere tra il recinto e la vita, e non diceva mai di no se poteva dire sì.

La partitina di quartiere

Un episodio, in particolare, mi ha colpito in questi giorni. Quando, chiamato a prendere parte ad una partitina di quartiere, per finanziare l’operazione chirurgica di un bambino cui la famiglia non avrebbe mai potuto provvedere, in pieno campionato (e dunque col costosissimo rischio di giocarsi una caviglia o un ginocchio), litigò con il presidente Ferlaino che non era per nulla d’accordo e alla fine, agendo di testa propria, affrancò l’assicurazione di tasca propria e raggiunse il comune di Acerra, vicino Napoli, portandosi dietro anche molti compagni di squadra. Lì, in mezzo al fango, dentro un recinto fatto di automobili posteggiate alla meno peggio, giocò per quel bambino e radunò circa diecimila spettatori, e in breve la cifra per l’operazione fu raccolta.

Ora, io non so se sia giusto o meno definire Maradona Mano de Dios, non so se sia persino troppo sacro per un poco di buono come lui.

Pero, si Dios tiene una mano, en ese día, en medio del barro, para el padre de ese niño la mano de Dios fue realmente él.

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