La bellezza non muore, come Diego. Maradona è stato un concentrato di umanità, divinità (artistica) e allo stesso tempo di fragilità e intrinseca predisposizione all’errore, alla caduta, alla dannazione e alla speranza di redenzione e rinascita nella quale tutti possono rispecchiarsi
La bellezza non è un opinione, e non muore. La bellezza della vita, del sorriso di un bambino, di un tramonto, ma non è ancora questo, proviamo ad andare oltre: la bellezza di un Notturno di Chopin, di un libro di Nabokov, forse ci stiamo avvicinando, ma ancora non è sufficiente, perché ognuno può avere i propri canoni di bellezza, le proprie modalità e possibilità di fruizione, ma ancora siamo nel contingente, nel soggettivo, nel mondo della “rappresentazione” del Fenomeno, non andando al Noumeno direbbe Schopenauer.
Quella volta che Carmelo Bene…
Secondo il filosofo le “Idee” (la bellezza), non sono delimitate dal principio di ragione, quindi dalle contingenze e dalla soggettività, pertanto per poterle conoscere, bisogna annullare lo stesso soggetto conoscente. È un pò quello che Carmelo Bene definiva “l’abbandono” che non è che la Nouluntas schopenaueriana, tramite la quale la conoscenza si libera dalla Voluntas, dal principio di ragione, sprofondando nell’essenza delle cose, in ciò che sono, andando oltre, divenendo il soggetto non più individuale ma conoscente puro. Forse a questo punto siamo andati troppo oltre e in fondo è altrettanto vero che contrariamente a quanto diceva il principe Myškin ne L’idiota di Dostoesvkij, probabilmente la bellezza non salverà il mondo, ma sicuramente lo renderà un posto migliore in cui vivere per il tempo che ci è concesso, ma soprattutto, cosa c’entra l’estetica di un filosofo dell’Ottocento con quella che vuole essere una breve e semplice elegia e omaggio a Diego Armando Maradona (30 ottobre 1960 – 25 novembre 2020)? Forse può venire in soccorso ciò che ebbe a dire più prosaicamente proprio Carmelo Bene, quando nella celeberrima puntata del Maurizio Costanzo Show del 1994 parlando di calcio ebbe a dire che il gioco è cosa importante ma, riferendosi all’allora in corso Mondiale di calcio in svolgimento negli Stati Uniti ebbe ad affermare che “quegli uomini in mutande”, così li definì, loro non giocassero, ma scherzassero, aggiungendo che «lo scherzo è adulto, non è più il gioco, non è il bambino, non c’è l’aspetto ludico, non c’è più l’equivoco del mito, non si vede un assist di Maradona o una volèe di Edberg quando essendo (Edberg) il tennis non può giocare a tennis, gioca addormentato», per esteso quindi Diego Armando Maradona, che essendo il calcio non poteva giocare a calcio perché un suo tiro, un suo dribbling, un palleggio è qualcosa che come gesto eccede la stessa forma che lo dovrebbe contenere, che quindi l’opera del genio, perché di questo si tratta, anche se solo sotto forma di piroette di note e tratteggi di colore e gioia fatti con un pallone da calcio, non poteva essere incasellata nella semplice rappresentazione, in questo caso performance sportiva.
Un uomo, oltre gli stereotipi
Fatalmente in questi giorni si parlerà di quel ragazzo nato sessanta anni fa in una baraccopoli alla periferia di Lanus con tutti gli stereotipi del caso: genio e sregolatezza, il diavolo e l’acqua santa, un calciatore che in una stessa partita, quel quarto di finale contro l’Inghilterra nel Campionato del mondo del 1986, con ancora le ferite aperte del conflitto delle Isole Falkland, sarà capace di segnare quello che da molti è ritenuto il goal più bello della storia del calcio e contemporaneamente il goal truffa più famoso, di mano, “la mano de Dios”, dirà El Pibe, con l’irriverenza del genio. Si parlerà delle sue disavventure con la droga, dei figli non riconosciuti, delle imputazioni e condanne per evasione fiscale, del suo essersi schierato politicamente in modi per certi versi discutibili, ma sempre diretti e sinceri, quando in fondo la posizione raggiunta poteva suggerire come a molti suoi omologhi una totale neutralità, insomma si parlerà della sua vicenda umana, fuori dal campo da gioco, come se un essere umano fosse diviso in compartimenti stagni, come se per un credente Dio ci amasse a pezzi e non per tutto quello che siamo, o per un non credente come se un essere umano fosse fatto di una materia fisica disgiunta da quella più aleatoria, mentale o spirituale che la si voglia definire.
L’amore di Napoli
Sarà logico che se ne parli in questo modo ed è qui che sta la grandezza di Diego Armando Maradona che in ogni caso sarà celebrata, proprio perché iconica, non tanto per la storia del bambino povero proveniente da un barrio argentino per il quale il calcio ha rappresentato l’occasione di riscatto sociale, la storia dello sport, dello spettacolo e della stessa letteratura è piena di queste storie, ma perché in quel bambino divenuto da adulto il più grande calciatore di tutti i tempi vi è stato un concentrato di umanità, divinità (artistica) e allo stesso tempo di fragilità e intrinseca predisposizione all’errore, alla caduta, alla dannazione e alla speranza di redenzione e rinascita nella quale tutti possono rispecchiarsi. Non è un caso che la città di Napoli lo abbia così amato, a partire da quel 5 luglio del 1984 quando uno stadio San Paolo pieno all’inverosimile, prima volta in assoluto per il calcio italiano, lo accolse festante come un figlio e allo stesso tempo come un vero e proprio messia, facendone il simbolo della voglia di riscatto di un’intera comunità in un modo che ha travalicato il mero dato sportivo, una comunità alla quale questo figlio adottivo darà tante gioie pochi anni dopo.
Il brivido alla schiena
C’è anche da augurarsi che si possa sentir parlare del contributo alla letteratura che Diego Armando Maradona ha dato e darà ancora, intrinsecamente perché la sua parabola, ascesa, caduta con tutto quanto di sublime vi è stato in mezzo, è stata quanto di più di letterario vi possa essere ed estrinsecamente con tutte le pubblicazioni già a lui ispirate, e le future che fatalmente e di vario taglio vi saranno.
Si parlerà invece sicuramente dei suoi gesti sportivi, unici, irripetibili, anzi in questo caso saranno solo le immagini a parlare e quei gesti scorreranno ancora e ancora sugli schermi con la leggerezza e perentorietà di un’opera di genio, quel brivido alla schiena, luogo che lo stesso Nabokov, un altro genio, questa volta propriamente letterario, riteneva deputato alla ricezione della bellezza letteraria, del “gesto letterario” confinandola proprio lì in quell’inaspettato spazio fisico e non in qualche astratta spelonca dell’intelletto, perché anche Diego Armando Maradona a suo modo è stato e sarà per sempre anche letteratura, arte e gioco, e la sua vita e i suoi gesti non sono che stati la testimonianza del sublime piacere di un bambino che amava giocare con la palla, per dirla con Friedrich Schiller: «Quello che mai né in luogo alcuno avvenne, solo quello non invecchia» né muore, appunto, per sempre.