Nuova puntata di Area 22. La Shoah al centro di una distopia in “Olocaustico” di Alberto Caviglia: un romanzo accattivante, una storia buona e divertente che ti avvelena fin dal primo sorso, fra drammaticità storica e iperbole fantastica. Il punto di sollevamento di tutta la storia è l’effetto di una “cazzata” preterintenzionale, talmente oltre l’intenzione da diventare incontrollabile. Ma capace anche di mettere in moto l’intima essenza del protagonista – che lavora allo Yad Vashem di Gerusalemme – che ricostituendo gli elementi della sua memoria personale e storica, cerca di mettere ordine dentro di sé.
Devo essere sincero. Qui il titolo è stato decisivo. Olocaustico (303 pagine, 18 euro) di Alberto Caviglia, edito da Giuntina: un titolo dove non puoi non vedere fin da subito un tema e un’intenzione, uno sfondo e una scelta narrativa.
L’impalcatura tematica che sta alla base di tutto, come si può facilmente immaginare, riguarda la Shoah; e basterebbe quell’olo- lì, messo a radice; è il resto della parola, però, che ti fa agguantare il libro dallo scaffale, in mezzo a tanti altri. Sì, perché dopo c’è un aggettivo inconsueto invece del solito stramacinatissimo sostantivo. E dunque, si parli pure di Shoah, di Olocausto (che è già un bruciare tutto, letteralmente), ma se ne parli persino in modo “caustico”, tagliente, sferzante, più bruciante ancora. Insomma, non hai ancora sfogliato una pagina del tuo nuovo libro (perché nel frattempo hai deciso che sarà tuo) e già la sua più intima essenza ti ha raggiunto.
Poi però lo apri, e scopri che la storia si svolge nel 2023. È il puro attimo in cui – se hai già una certa familiarità con certe strategie – capisci che ciò che leggerai da lì in avanti non sarà solo una storia, ma una potenziale distopia: ciò che sarà raccontato non potrai verificarlo perché quel tempo deve ancora arrivare, e quindi sei costretto a camminare insieme all’immaginazione di un autore che l’ha pensato prima che arrivasse.
Colori narrativamente sgargianti
Ma siamo sicuri che “il tempo” narrato nel romanzo non sia ancora arrivato? O non è, piuttosto, che Caviglia abbia magari giocato coi tratti della realtà per presentarcela tale e quale, con colori giusto un po’ più vivaci? Già, come certi rettili coloratissimi, che sono così per metterti in guardia dal veleno che portano dentro. Olocaustico è proprio così: un testo ricchissimo di colori narrativamente sgargianti. Ma qui il rettile, che è poi si scoprirà essere una lucertola a metà tra Godzilla e il pesce radioattivo dei Simpson, non vuole metterti in guardia dal suo veleno, ti ci vuole attirare! Già, Caviglia ti richiama con spirito e ironia ad assaporare la dolce bevanda di un romanzo accattivante fin dall’inizio, una storia buona e divertente, che ti avvelena però fin dal primo sorso.
Con destrezza inspiegabile per uno scrittore alle prime armi (scopro che è un regista, e sciolgo il 50% del mio stupore), Caviglia imbastisce una trama “leggera” come… come una piramide. Scorrazzi allegramente tra le prime spiritose descrizioni dei personaggi e degli ambienti della narrazione, prima di inciampare dolorosamente nel sospetto di ciò che quel romanzo potrà diventare. La metamorfosi avviene davvero come in un film, anzi, strano come l’autore non abbia pensato di tirarne fuori una pellicola. E qui metto un emoticon in mezzo al testo, proprio come fa lui: 😂. Dicevo, la trasformazione della storia in qualcosa di infinitamente più drammatico di ciò che potrebbe sembrare all’inizio, avviene per piccoli bocconi, fin da subito; bocconi che si fanno sempre più corposi, fino al punto in cui arrivi a identificarti talmente col protagonista che non solo non riesci più a smettere (l’ho letto praticamente in un giorno e mezzo) ma addirittura senti addosso tutto il peso della sua colpa (sì, ne combina una veramente grossa!), come se fosse la tua. E se magari fosse “anche” la tua? Ipotesi interessante e per nulla peregrina, intelligentemente suffragata dalle incidenze di un’ironia che si fa rasoio.
Io, es e super-io
La strumentazione narrativa, costituita dalla trama avvincente e dall’uso psicanalitico dei personaggi satellite, fa sì che David – il protagonista – non abbia con sé solo degli amici, ma altrettanti indici della sua psiche: così, ad esempio, i suoi due confidenti immaginari (Itzhak Rabin sulla sua spalla destra e Philip Roth su quella sinistra) rappresentano non solo le idee del sacro e del profano, ma il primo potrebbe essere il suo Io e l’altro il suo Es: Rabin tiene David incollato alla realtà delle cose, mentre Roth ne eviscera le più recondite pulsioni; la sua ragazza, invece, Sharona, potrebbe essere benissimo il suo super-io perché, facendolo carambolare continuamente tra ciò che deve e non deve fare, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, decostruendolo e ricostruendolo continuamente, gli pone innanzi la prospettiva di un modello umano realizzabile, e che in effetti un po’ per volta si realizza. Questa, naturalmente, è una mia lettura, e non so se in effetti l’autore ce l’avesse in mente mentre scriveva il libro, o se magari la stia riconoscendo divertito proprio in questo momento (in tal caso, non smetterei di stupirmi davanti alle inconsapevoli e infinite potenzialità di un testo, specie se ottimamente riuscito).
Tutta la storia si gioca tra la negazione da un lato – negazione prima e negazionismo poi – e la riaffermazione dall’altro; drammaticità storica e iperbole fantastica si intrecciano mirabilmente in un amalgama che non può annoiare, e non può far non riflettere, specie da un certo punto in poi.
Non illudetevi del fatto che qui, pur concedendo l’ombra di qualche elemento, io possa o voglia descrivervi tutta la trama e il finale: sarebbe come prendere a calci l’autore, dopo la fatica di una scrittura così attenta ai passaggi emotivi e narrativi.
Però concederò a me stesso il lusso di passare in rassegna certi punti che ho trovato semplicemente geniali, e che mi sembrerebbe altrettanto delittuoso tralasciare.
Lo Yad Vashem (l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah) è uno degli ambienti più percorsi all’interno della storia, dato che il protagonista ci lavora, occupandosi di andare a scovare vecchi ebrei sopravvissuti all’Olocausto per poi intervistarli. L’autore, la cui sensibilità viene fuori in modo violento, senza pietà, produce un’accusa criptica, descrivendo con quanta leggerezza si possano produrre documentazioni giornalistiche al solo fine di creare scoop, passando sopra come degli schiacciasassi sulla memoria di uomini terribilmente feriti. E così, calcando la mano sul possibile (che non è mai troppo distante dal reale), descrive una campagna pubblicitaria in cui si invitava chiunque avesse conosciuto un sopravvissuto che non avesse ancora rilasciato la sua intervista, a segnalarlo. Già, segnalarlo. Un verbo che richiama un procedimento preciso: segnalati prima, prima di finire in un campo di sterminio, e segnalati dopo, dopo esserne usciti. Insomma, un destino ineluttabile.
Contro la superficialità delle masse
La superficialità delle masse è la grande antagonista (ma anche la grande complice) di questo libro: Caviglia ci si scaglia contro in continuazione, sia quando i toni si fanno drammatici, sia quando mantengono il livello di un inverosimile grottesco, come lo scienziato che vince il premio Nobel per aver scoperto un rimedio omeopatico contro l’emicrania. E in un altro passo, David immagina il giorno in cui sarà lui a vincere un Oscar, e allora ringrazierà George Orwell, Steven Spielberg, Vincent Price e… non ci credereste… i Jalisse! Tanto per darvi un’idea su dove si spinge il surreale.
Fiumi di parole sono stati scritti sulla Shoah, ma pochi hanno saputo usare anche le lettere dell’alfabeto. A pagina centoundici, mentre si racconta una scena dentro lo Yad Vashem, arriva la descrizione del pavimento, su cui sono stati scritti i nomi dei 22 principali campi di sterminio. E fin qui tutto ok, mica l’ha costruito Caviglia lo Yad Vashem. Ma la frase si conclude esattamente alla 22esima riga. E 22 è il numero delle lettere dell’alfabeto ebraico, che racchiudono non solo tutta la storia, ma la storia di ogni uomo.
Che altro? Beh, c’è una cosa che devo proprio dire perché mi ha fatto simpatia! Sapete… uno scrittore non si accontenta che tu legga: è piuttosto un inconfessato maniaco che vuole possederti fino al punto di farti fare tutto ciò che vuole, controllandoti a distanza! Così, Caviglia, mentre descrive il saluto di una ragazza, ci dice che questa si comportava esattamente come la groupie che, alla fine di un famoso video di Bruce Springsteen, viene invitata dal Boss a salire sul palco a ballare con lui. Ma certo! Come si fa a non conoscere quel video e a non ricordare quella scena?! È chiaro che il lettore, tranne che non sia un depresso che ha già staccato la spina dal mondo, se lo andrà a cercare su Youtube per verificare! La qual cosa era esattamente ciò che Caviglia voleva. A proposito, se vi state chiedendo quale sia il video, ovviamente non ve lo dico, e non vi dico neanche la pagina.
Così come non vi dico chi è il personaggio che un sabato mattina, mentre sta costruendo una casa sull’albero per le sue bimbe, cade e fa un volo di due metri. L’ironia, taciuta dal testo ma offerta dalla descrizione, ghigna divertita sugli effetti della profanazione del riposo sabbatico.
Terrificanti, tra tante trovate divertenti, anche certe descrizioni. Come quella del cimitero di Varsavia, dove si trovano centinaia di tombe tutte ricoperte di erbacce e a stento riconoscibili. Perché nessuno se ne prende cura? Questa la domanda di un lettore con almeno un residuo di umanità. La risposta è che le famiglie che avrebbero dovuto prendersene cura non esistono più: furono tutte deportate e non ritornarono mai più. O quando un personaggio chiave del romanzo, ascoltando un notiziario in tv, inizia a tremare sempre più forte spalancando la bocca: come si fa a non riconoscervi la descrizione di Frank Alexander che riconosce la voce di Alex, in Arancia Meccanica? Se è una citazione voluta, è strepitosamente puntuale ed efficace! In caso contrario, ha sortito l’identico effetto. Terrificante anche la mail che, ad un certo punto, il protagonista riceve! Talmente vera, a quel punto della storia, in cui sei tutt’uno con l’angoscia del protagonista, che davvero per un po’ credi sia stata scritta per te. Forse è vero. Forse tutti, chi più chi meno, abbiamo costretto qualcuno ad una profonda tristezza a causa di un nostro comportamento.
L’intenzione letteraria, la luminosa rivelazione
Insomma, il punto di sollevamento di tutta la storia è l’effetto di una “cazzata” preterintenzionale, talmente oltre l’intenzione da diventare incontrollabile. Ma capace anche di mettere in moto l’intima essenza del protagonista (e dei lettori, suoi accusatori e complici) che, a quel punto, ricostituendo gli elementi della sua memoria personale e storica, cerca di mettere ordine dentro di sé.
Toccante, e sempre argutamente tra le righe, il suo ricordo della sinagoga, quando col padre, da ragazzino, sgattaiolava fuori prima che finisse il culto dello Yom Kippur, osservando il peso dell’espiazione sul volto di chi invece rimaneva fino alla fine. E si sentiva in colpa mentre usciva fuori. Appesantito dal senso di colpa. Già, caricato come un capro emissario che lasciava la comunità per andarsi a perdere in mezzo al deserto. In questi sottotesti Caviglia è sublime, specie quando le descrizioni sono al livello delle più drammatiche vicende che si consumano tra le pagine “impensabili” di questo romanzo.
Il culmine della soddisfazione interpretativa l’ho avuta quando, nella chiacchierata clandestina occorsa tra David ed un certo Copernicus, ho riconosciuto in quest’ultimo un altro personaggio (reale), il cui nome comincia con la B, esattamente come la Torah. Che se Dio l’avesse saputo (ma certo che lo sapeva!), avrebbe fatto cominciare la Legge con un’altra lettera! Quel dialogo è il fulcro di tutto il romanzo: lì viene fuori tutta l’intenzione letteraria, in tutta la sua luminosa rivelazione. E si capisce fino a che punto finzione e realtà siano capaci di mescolarsi nell’alchimia sempre nuova di un esperimento narrativo che qui, mi sembra, raggiunge il suo culmine morale.
Certo, il minimo che vorrei fare, dopo aver letto questo libro e meditato sul fatto che il suo autore sia anche raggiungibilissimo, sarebbe quello di andarlo ad incontrare. E gli direi che anch’io, da ragazzino, feci una gita a Palermo con mia nonna, scattando con lei una foto sotto quello stesso albero. E poi, magari, mangerei con lui quell’hummus di cui ha tanto parlato nel suo libro, che ignoro cosa sia, e che non sono andato a cercare su internet, nella speranza che si realizzi questo mio desiderio.
E poi gli direi grazie, soprattutto per Mordechai. Perché difficilmente si riesce ad inventare un personaggio così vero. Tanto vero da accorgerti, ma solo alla fine, che non è affatto inventato, e che ha il volto di tutti i sei milioni di scheletri imprigionati nell’armadio della storia.
Comunque, sì. Il libro mi è piaciuto (si era capito?). Magari se ne facesse un film! Ci sarebbe il tutto bruciato esaurito.
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