Una nonna, un nipote e le tante vite sconvolte da un cecchino siriano nel corso della Guerra del Kippur sono i protagonisti di “Resta ancora un po’” di Ghila Piattelli. Tutti i personaggi sono affetti da un’inguaribile voglia di solitudine, l’autrice entra di soppiatto in un ritratto di famiglia dove l’amore c’è, ma scorre su strade parallele e sembra non trovare mai il proprio destinatario…
Per passare più tempo con il suo nipote prediletto, Yoni, cresciuto con “la sindrome del popolo eletto”, nonna Giuditta gli propone di accompagnarla alla ricerca del cimitero in cui vuole essere sepolta. Non c’è famiglia che possa dirsi immune da sguardi indiscreti, da voci che sussurrano cose alle tue spalle, da silenzi che dicono molto di più di lunghi discorsi. Il viaggio di Giuditta e Yoni sarà un percorso a tappe, un tentativo di far luce sui segreti di famiglia. La prima a vuotare il sacco è proprio Giuditta. Partita da Firenze alla volta di Gerusalemme, sposa di Assa, passa i suoi primi tre anni in un kibbutz, «arrivata in Israele alla fine degli anni quaranta, è rimasta sempre estranea, diversa, non completamente radicata». Sono tre lunghi anni che continua a ricordare con astio e disappunto, «quei tre anni nella baracca non li ha mai perdonati al nonno. Se fosse stato per lui chissà dove sarebbero adesso, sostiene lei», ma sono gli anni in cui si affranca dai sogni, in cui costruisce quello scudo dietro al quale continua a ripararsi per non essere colpita, «tutto ciò che la circonda ricorda l’Italia, dal servizio di porcellana con cui apparecchia la tavola, ai profumi che avvolgono la sua casa».
Desideri infranti di ventenne
La città di Gerusalemme, vista dall’alto continua a sottoporle una sola domanda: possono i desideri sparire a causa della realtà? Non passa giorno che il pensiero di Giuditta non torni alla storia di sua figlia, Ahuva, oggi uno degli avvocati più noti della città. E ai suoi desideri di ventenne infranti per mano di un cecchino. All’ombra di un carrubo, «nella piazzetta antistante la piccola sinagoga dove Assa, il padre di Ahuva, prega una volta l’anno in occasione di Yom Kippur», Ahuva e Yonatan avevano disegnato un’infinità di sogni, arenatisi di fronte ad una realtà crudele. Da quarant’anni Ahuva vive con il suo fantasma, lo ha portato con sè il giorno delle nozze con Zvika; lo ascolta mentre percorre in macchina, assorta, le strade di Tel Aviv, «a volte invece la figura di Yonatan le appare pura, senza contaminazioni. È lui, come era nelle serate di fine estate trascorse sulla collinetta. Ultimi momenti di grazia concessi loro, prima della guerra»; lo asseconda ogni martedì quando si incontra con Erez, amico di gioventù, unico frangente in cui riesce a dimenticare ogni cosa e a godersi le vibrazioni della sua presenza, «è un patto di sangue, il loro, in memoria di Yonatan, in ricordo di quello che sono stati, perché ciò che viene dimenticato è irrecuperabilmente perduto. Un viaggio nel passato, ogni settimana, alla stessa ora, per poter sopportare il presente». Quando Giuditta mette al corrente Yoni, di ogni cosa, il ragazzo riesce finalmente a spiegarsi molti aspetti del rapporto con sua madre, il suo sguardo assente ogni volta che tornando da scuola, la aggiornava sulle cose accadute durante la giornata. Il suo sguardo spento, sempre rivolto altrove, “e oggi mi chiedo se quell’altrove fossero l’ufficio e il tribunale, come pensavo allora, o un luogo dell’anima, chissà dove, chissà con chi”.
Lo sguardo del nipote
Ghila Piattelli entra di soppiatto in un ritratto di famiglia dove l’amore c’è, ma scorre su strade parallele e sembra non trovare mai il proprio destinatario. «Si chiede dove era lei quando Ahuva ha deciso di sposare Zvika, dov’era quando sua figlia osservava giorno dopo giorno il suo matrimonio andare in pezzi. Zvika e i figli, Yoni soprattutto, stanno pagando il prezzo di due generazioni di madri che hanno fallito nel loro intento di essere madri […] Quante vittime collaterali ha potuto fare un cecchino siriano sulle alture del Golan nel corso della Guerra del Kippur?», si interroga Giuditta dopo un’animata discussione con sua figlia. C’è la diaspora di chi ha lasciato il proprio paese, chi ha ritrovato in Israele le radici che andava cercando, chi come Giuditta ritrova ogni giorno nella sua cucina quell’accento italiano che lentamente le è scivolato addosso. Ma Giuditta sa che non avrebbe potuto fare i conti con ciò che è stato da sola. Non ce l’avrebbe mai fatta. Ha tardato all’appuntamento per una vita intera. Lo sbaglio sembra reiterato nel tempo. Sembra un vizio di famiglia. Sarà lo sguardo di suo nipote Yoni, che se avesse potuto scegliere tra tutti i bambini del mondo, sempre, ovunque e comunque, «io avrei scelto te», a rimettere a posto i ricordi e dare voce a chi non l’ha avuta finora, una resa di fronte a un inestinguibile passato che chiede di essere ascoltato.
Imbarazzi, discorsi lasciati a metà
Giuditta sa che i viaggi con Yoni sono un pretesto, sa che dovrà affrontare gli enigmi e i forti silenzi che hanno abitato la sua famiglia, per poter riposare in pace. Ci sono specchi che continuano a riflettere tutto ciò che poteva essere e non è stato, “come sarebbe stata la mia vita senza Zvika, senza averti perso? Se tu fossi rimasto accanto a me?”, chiede Ahuva al fantasma di Yonatan, “se fossi rimasto veramente, anima e corpo? Se fossi invecchiato con me, se avessi lasciato i piatti sporchi nel lavandino, e avessi russato la notte”; ci sono imbarazzi, discorsi lasciati a metà e quell’inguaribile voglia di solitudine, di cui sono affetti tutti i personaggi. Ghila Piattelli in Resta ancora un po’ (280 pagine, 15 euro) questo suo romanzo d’esordio per Giuntina, abita una famiglia, incapace di separarsi dal tempo e di inseguire una certa libertà. La chiave di lettura di quel tempo che viene richiesto, “resta ancora un po’”, che dà il titolo al suo romanzo, sta nelle stesse piccole speranze sognate e abbandonate, ma anche in quello slancio vitale che ancora le attende dietro al paravento.
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