Riproposti i racconti di “San Gennaro non dice mai di no” di Giuseppe Marotta, pubblicati nel dopoguerra dopo un breve ritorno dello scrittore nella città natale. Storie di gusto raffinato e altissimo pregio nelle quali indugia su un dettaglio del paesaggio o del clima, cattura una delle mille inclinazioni/deformazioni caratteriali della città, stilizza i vezzi/vizi dei napoletani
Per una napoletana “emigrata plurima” quale la sottoscritta, è di solito molto difficile rinunciare ad una “puntatina letteraria” giù Napoli quando se ne prospetta la possibilità. Più che mai oggi, mentre le prescrizioni dettate dall’emergenza pandemica vietano letteralmente ai “fuori regione” di farvi ritorno. Parimenti prepotente, a visita conclusa, è poi la smania di stendere un resoconto del viaggio. I piaceri intensi e vibranti premono, infatti, per essere reclamizzati.
Comicità e paradosso
Leggere San Gennaro non dice mai di no di Giuseppe Marotta, riportato alla stampe da Polidoro editore, con prefazione di Alessio Forgione, è stata la mia consueta e istintiva risposta al desiderio di casa. Scriverne, ora, significa esprimere un tributo postumo di gratitudine allo scrittore dei più conosciuti L’oro di Napoli e Gli alunni del sole, e in più esortare l’editore Polidoro, che ringrazio per l’opportunità della piacevole avventura, affinché perseveri nel meritorio recupero dei testi di Marotta.
Il fascino evocativo, mai nostalgico, della sua scrittura, che pareggia – se non addirittura amplifica – la forza seducente della città descritta, già da sola sarebbe sufficiente a decretare San Gennaro non dice mai di no pienamente qualificato tanto a risollevare – arricreare – la sensibilità di un animo avvilito dalla lontananza, quanto ad appagare la curiosità di chi a Napoli non ha mai messo piede. Se ad esso si sommano la genuinità della parlata, talvolta ironica, talaltra dolente o critica, la piacevolezza del tratto, sciolto, disinvolto, perfino all’occorrenza scanzonato, e l’originalità di personaggi e aneddoti narrati, cesellati proporzionando con rigore comicità e paradosso, questo libro merita di essere accreditato tra i generi di conforto essenziali.
Il breve ritorno ai “luoghi suoi”
Pubblicato per la prima volta nel 1948 da Longanesi e tornato in libreria significativamente proprio il 19 settembre 2020 (giorno del “prodigio” di San Gennaro), come anticipato grazie a Polidoro, San Gennaro non dice mai di no (244 pagine, 16 euro) è il resoconto, organizzato in una raccolta organica di ventitré racconti, del breve ritorno di Marotta a Napoli, nel marzo del 1947 dopo un’assenza ventennale.
Gli episodi, disposti secondo un ordine cronologico plausibilmente coincidente con le reali tempistiche del soggiorno, si puntellano vicendevolmente a ricomporre l’itinerario seguito dall’autore nell’andare a riguardarsi i “luoghi suoi” – splendida è la descrizione del faccia a faccia con il mare del capitolo terzo – o a scovare i “soggetti artistici” che più gli premeva rappresentare. Ventitré gouache di gusto raffinato e altissimo pregio nelle quali indugia, di volta in volta, su un dettaglio del paesaggio o del clima, cattura una delle mille inclinazioni/deformazioni caratteriali della città divenuta ancora più bizzosa nel macello postbellico, stilizza i vezzi/vizi dei napoletani, sollecitati dalla contingenza ad alzare sempre di più l’asticella della creatività nell’architettare escamotage di sopravvivenza.
La perenne smorfia opposta al mondo
A conclusione del capitolo nono Marotta scrive:
Non si saprà mai, pensavo, se creando questo paese, al quale nessuno non può non voler bene, Iddio scherzava o faceva sul serio
Ad anni di distanza da queste pagine la riflessione mantiene intatta la sua sensatezza. Ad anni di distanza da queste pagine non faccio fatica a riconoscere in quella narrata la mia città, identica nella perenne smorfia che oppone al mondo.
Prendo nota di certi codici su cui Marotta si sofferma, i quali subdolamente continuano a segnarla. Tento parallelismi con la situazione attuale. Mi adiro per le medesime piaghe ancora aperte. Mi rammarico per le occasioni di miglioramento sprecate. Poi torno nei ranghi. Mi obbligo al solo commento del testo, scansando le analisi sociologiche, antropologiche o politiche nelle quali si finisce spesso impelagati se al centro di un libro c’è Napoli.
Fatterelli e curiosità in pagine amabili
Rivolgo l’attenzione a ciò che i racconti offrono al lettore o quanto meno a ciò che hanno regalato a me. Naufragando romanticamente tra le righe, mi sono beata dello spasso di certi fatterelli bizzarri, meravigliata per le mille curiosità di cui la raccolta è puntellata, stupita di certi costumi e modi di dire caduti in disuso ma anche rallegrata scoprendo finalmente le radici antiche di altri sopravvissuti.
È certamente sincero Marotta quando afferma: «Scrivendo finora di Napoli non mi sono mai illuso di superare i limiti dell’annotazione, di un pro-memoria: su una sola corda di chitarra o forse mezza ho strimpellato una rozza cantilena alla città, quando scomparsi Di Giacomo, la Serao, Russo, a nessuna musica essa diceva più niente», ma l’amabilità, la bellezza e la preziosità delle sue pagine, nelle quali non v’è la benchè minima traccia di rozze cantilene, categoricamente lo sconfessano. Quando si narra sotto dettatura del «mare e vicoli e gente della» propria «giovinezza», San Gennaro non dice mai di no all’elargizione di una sua benedizione. Lo testimonia il caso di Marotta.
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