Ne “I divoratori” di Stefano Sgambati la forma troneggia, è il resto che non convince: un intreccio di storie, battute e pensieri, una serata di gala in un grande hotel milanese, che lasciano addosso un sentimento pigro e sconfitto…
Tracciare un profilo de I divoratori (204 pagine, 18 euro) di Stefano Sgambati, edito da Mondadori, è molto azzardato. Estremamente difficile. Algebricamente pericoloso. Chi può negare che non sia scritto bene? L’attenzione al dettaglio, la meticolosità di certi passaggi, la cura chirurgica nello scegliere le parole, gli aggettivi, lo zelo farmacistico nel costruire le sintassi e isolare i dettagli, hanno qualcosa di assolutamente commovente. Qui la forma troneggia, è importante, si muove spavalda. È tutto il resto che lascia perplesso.
Un prolasso dell’attenzione
Quel combinato disposto di storie – tristi, un po’ volgari, assolutamente decadenti – che si rincorrono all’interno della prestigiosa cornice dell’Hotel Principe di Savoia di Milano, lasciano un senso di spaesamento che non è piacere, ma quasi un prolasso dell’attenzione. Tutto avviene in una serata all’insegna del glamour, dell’effetto patinato, delle celebrities. La cena di due iper-divi hollywoodiani, con il loro codazzo di security, fotografi e pettegolezzi, calamita le attenzioni degli altri commensali. Due amanti che scoprono di non aver nulla da dire e da dirsi; un professore e la sua studentessa, troppo distanti tra loro, non solo per motivi anagrafici; la famiglia del maitre, dal gusto nazional-popolare e proprio per questo scandalosamente imbarazzante in quel contesto di lustrini e cotillon.
Tra stanchezza e noia
In un continuo intrecciarsi di sguardi, pensieri, considerazioni, battute, la cena finirà per cestinarsi da sola in un epilogo cruento e inaspettato. Cosa lascia questo libro? Forse un sentimento pigro, annoiato, sconfitto. Forse un misto di stanchezza e noia. Forse la consapevolezza che in ognuno alberga un seme di follia pronto a trovare il suo momento per esplodere.
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