Una sciarada di senso e sentimento, firmata Matronola

Tra sofferenze e rimedi si muovono i personaggi de “Il mio amico” di Daniela Matronola, apparentemente una raccolta di quattro racconti: dolori e cure, da una parte la malattia, la nostalgia, l’assenza e lo scorrere impietoso del tempo, dall’altra il prendersi cura dell’altro, la memoria come possibilità di esistenza, l’amicizia come occasione di libertà e l’ignoto come elemento sorprendente

Tutti i libri richiedono non solo d’essere letti, ma soprattutto capiti. Alcuni sono più semplici da leggere che da capire, perché intuisci che dietro le righe si nasconde molta più intenzione di ciò che la semplice emozione ti mostra. Sono i casi in cui un lettore viene messo al livello del testo, dove le parole esigono un’attenzione decisamente più che emotiva. Daniela Matronola ci mette nella condizione di sperimentare tutto questo attraverso un testo tanto immediato quanto esigente: Il mio amico (109 pagine, 13 euro), edito da Manni, una breve raccolta di quattro racconti (definizione che scopriremo impropria) i quali – però – hanno un comune denominatore nell’unico protagonista, Mauro, presumibilmente l’amico di cui il titolo ci rivela l’esistenza fin dal primo istante.

Dico “presumibilmente” perché alcune volte le pagine sono spazi tra differenti orizzonti di realtà, oltre i quali le parole non sempre rispondono alle leggi newtoniane di una scrittura; non sempre, cioè, un titolo esaurisce in una parola tutto ciò che c’è da dire. Questo vale, naturalmente, anche per tutte le altre parole, e te ne rendi conto fin da subito.

Riferimenti incrociati e caotici

Tra le tante occasioni di lettura intrecciatesi ad una qualche raccolta di racconti, quella della Matronola appare immediatamente come un notevole esperimento letterario. Non tanto perché l’autrice si provi in chissà quale tentativo metanarrativo (non è da escludere), ma perché è certo che questo esperimento riguardi soprattutto chi legge: come se si volesse verificare, al vetrino di una lettura attenta e coraggiosa, fin dove un lettore sia capace di costruire utilizzando i mattoni che vengono messi a disposizione lì, tra le pagine della narrazione: i racconti, infatti, non ti dicono tutto né del protagonista, né del suo mondo circostante; ti danno dei riferimenti incrociati, non necessariamente concordanti sul piano spaziotemporale, forse anche volutamente caotici; e a partire da tutto ciò, spetta a chi legge l’ultima parola sul significato totale ed ultimo di questa gustosa lettura.

Gustosa perché ricca, tanto di suggestioni emotive quanto di termini che sappiano continuare ad evocarle oltre il margine occasionale della lettura: parole che continuano a farsi sentire anche dopo che – riposto il segnalibro – sei stato costretto a doverti alzare dalla poltrona e a rimandare a dopo. Daniela Matronola si rivela abilissima nella scelta dei termini, e nella loro comparsa all’interno del testo: una successione perfetta tra l’uno e l’altro, senza gare tra parole a verificare quale possa essere la più difficile; nulla di tutto ciò: se un termine “particolare” si incontra strada facendo è solo perché il testo lo richiede, perché il racconto ne diviene occasione naturale, e perché – in fin dei conti, e non ci sembra proprio l’ultimo ministero della letteratura – un libro dovrebbe anche insegnare sempre più e sempre meglio come è fatta una lingua.

Ecco, dal punto di vista stilistico si potrebbe parlare di questo libro come di una “mistagogia linguistica”, un accompagnamento dentro il mistero di una lingua capace di rivelare oltre il limite di quel “quanto” che comunemente siamo abituati a pensare.

Insufficiente una lettura accomodante

E qui l’oggetto della rivelazione è il contenuto essenziale di senso: non cosa “dicano” questi racconti, ma cosa “vogliono dire”. Ti ritrovi, già al secondo racconto, a cercare di mettere insieme i pezzi, a cercare di ricostruire uno sfondo comune, lì per lì invisibile, a chiederti cosa c’entri quel racconto con il precedente. È il momento in cui cominci a lavorare il testo, rendendoti conto che non potrai accontentarti di una lettura accomodante. Sono i libri che all’inizio odi – perché ti hanno illuso sulla possibilità che potessero offrirsi solo come occasione di un tranquillo riposo, e poi invece si sono rivelati un enigma – per poi amarli alla fine, perché in effetti ti hanno considerato, hanno presupposto la tua intelligenza e la tua disposizione naturale al trascendimento.

Personalmente, quando è cominciato il mio primo corpo a corpo col testo, mi è venuta in aiuto la copertina del libro (una fotografia del ponte Vansu, sul fiume Daugava, in Lettonia). L’immagine mostra un panorama in controluce, con l’azzurro stanco del fiume in contrapposizione al nero ferro della costruzione sullo sfondo. Un ponte: già un indizio. Un mezzo per passare da un luogo all’altro, esattamente come un libro ti permette di fare; e fin qui tutto ok: semplice simbologia (già, sospettosamente troppo semplice!). Poi, però, vedi che questo ponte si regge grazie a quattro strisce di cavi d’acciaio da un lato, e una sola lunga striscia di cavi dall’altro. E poiché non puoi fare a meno delle tue povere sinapsi, dai inizio ad un’ermeneutica a specchio sull’efficacia della quale nessuno potrà mai darti ragione (forse solo l’autrice, qualora l’intuizione fosse giusta): quelle quattro strisce di cavi, da un lato, potrebbero essere i quattro racconti contenuti all’interno del libro: quattro storie “indipendenti”, che non hanno per forza bisogno l’una dell’altra per realizzare il loro fine, che pur avendo uno stesso identico protagonista, in effetti potrebbero riguardare quattro persone diverse; insomma, quattro racconti come quattro strisce di realtà, prese a caso dal mondo. Poi, però, dall’altro lato, quell’unica cascata di cavi, quell’unica striscia, divenuta quasi la somma (almeno visivamente) delle quattro precedenti: qualcosa, dunque, a rivelarti che forse quei quattro racconti, pur essendo autonomi, godono di un invisibile entanglement: quattro particelle distinte, sul piano dello spazio e del tempo, ma irrimediabilmente unite da un unico destino nucleare: un senso che le supera, che le travalica, che le accomuna e che le arricchisce senza che ciascuna di esse – da sola – sia capace di raccoglierlo pienamente.

Geniale! Se è questa la follia sacramentale nascosta nell’immagine della copertina, allora tutto ciò è assolutamente geniale! In caso contrario vi fornirò il numero del mio pusher. E nella migliore delle ipotesi, la Matronola si farà una buona risata leggendo questa interpretazione.

Ma lasciate che vi dica qualcos’altro, senza anticiparvi nulla, senza rivelarvi segreti che solo certe pagine hanno il compito di mettere nelle vostre mani.

Intento terapico

Un senso soggiacente a tutto è certamente quello di un intento terapico: una lunga e tetrapode narrazione in cui, in effetti, l’unico protagonista è soprattutto un anestesista (questo si può dire, non è ancora anticipazione di elementi sensibili), e quindi – ammesso che ogni scrittore non lasci nulla al caso, e questo libro ti fa capire subito che qui il caso non esiste – si ricava da ogni racconto l’idea persistente di un dolore da un lato, e di una cura dall’altro. In ogni racconto vi è, come dire, una sofferenza e un possibile rimedio. Le quattro sofferenze che ho individuato (e che potrebbero racchiudere tutte le altre, di ogni altro uomo, sul piano di un’unica realtà possibile e condivisa, come i quattro punti di un quadrato racchiudono una porzione di piano) potrebbero essere la malattia, la nostalgia, l’assenza e lo scorrere impietoso del tempo. Specularmente ad esse, come remedia possibili che fanno da contrappesi perfetti, abbiamo il prendersi cura dell’altro, la memoria come possibilità di esistenza, l’amicizia come occasione di libertà e l’ignoto come elemento sorprendente che, affacciandosi da una finestra come dalle pagine di un libro letto durante un viaggio, schiude nuove pagine sulla tua vita. Questa lettura incrociata fa sì che Il mio amico non sia solo Mauro, nel rapporto evidentemente intimo che lo lega alla sua penna creatrice, ma anche ogni personaggio che – in un determinato momento – entra nella vita di Mauro come un sostegno, un aiuto, un qualcuno a cui aggrapparsi. Sergio, Matt, Cesare, Michel, sono tutti “Il mio amico” di Mauro. Ma anche il dolore, il passato, il padre assente e l’io irrisolto del protagonista sono, ciascuno a modo proprio, “Il mio amico” di Mauro: perché un amico è anche chi, in qualche modo, ti costringe a vivere, e a scegliere di farlo, mettendoti nella condizione di misurarti con te stesso, e di sciogliere istante dopo istante la sempiterna crisi delle possibilità. E poi, ovviamente, c’è il libro in quanto tale, che è “Il mio amico” sia di chi lo scrive sia di chi lo legge.

I colpi di genio del mestiere

Naturalmente, come se ciò non bastasse a rendere già questo testo una meravigliosa sciarada di senso e di sentimento, Daniela arricchisce il tutto con i colpi di genio propri del mestiere (e si capisce che la categoria degli scrittori non è qualcosa di astratto e di aleatorio, di occasionale e di hobbistico, ma poggia su solide basi di competenza e di tecnica), come chi non solo ti ha raccontato qualcosa, ma ha fatto in modo che tu ne ricavassi anche dei godimenti aggiuntivi, non indispensabili di per sé stessi, ma talmente ben disciolti all’interno del testo da essere considerati veri e propri regali dell’autrice all’intelligenza dei lettori.

Mi riferisco a certi richiami interni, a certe intertestualità che giocano a ping-pong tra un racconto e l’altro, come quando (farò pochissimi esempi) qualche buona riga viene spesa sulla comprensione e l’utilizzo dell’aggettivo “ganzo”, e poi questa parola te la vedi spuntare dopo, in un luogo testuale insospettabile, quando ormai pensavi che l’argomento fosse esaurito; per poi rincontrarla ancora alla fine, e questa volta usata dall’autrice! Oppure… quando nella stessa pagina la parola “cardinale” appare due volte, con significati completamente diversi (non che questa cosa debba necessariamente presupporre una chissà quale strategia, ma è simpatico notare come l’autrice giochi in più di una circostanza con la semantica). O ancora, e questo merita più spazio, il dispiegarsi dell’ultimo capitolo… emh… dell’ultimo racconto, dove davvero Daniela Matronola dà il meglio di sé nelle soluzioni linguistiche e metalinguistiche, dove finalmente Mauro – che sembra aver attraversato (o essere in procinto di attraversare) il “ponte” di cui sopra – si concede il flusso libero dei pensieri e delle descrizioni, e allora scopri con quanta ingegnosità le immagini si legano alle memorie, le frasi ai concetti, le figure ai retaggi del testo fino a quel momento assimilato! E c’è persino quel libro (di cui non diciamo nulla), un libro nel libro, a diventare quasi un Virgilio nella selva oscura dei trepidanti accavallamenti mentali del protagonista. Un libro che richiama – nella modalità con cui viene utilizzato all’interno del racconto – le cupe e oracolari atmosfere del capolavoro di Diane Setterfield, oltre che la stessa funzione narrativa e strutturale.

Insomma, davvero un testo prezioso, una pubblicazione che solo nella più riduttiva definizione potrebbe essere dato come una semplice “raccolta di racconti”, perché – semplicemente – non è e non potrebbe mai essere solo questo. Utile, a mio avviso, nei laboratori di scrittura creativa, dove tanto il sostantivo quanto l’aggettivo potrebbero rispecchiarsi senza alcun imbarazzo in questo libro e nella sua autrice, cui va un assoluto plauso.

Non una lettura facile

Certo, non è esattamente una lettura facile.

Mantiene una semplicità essenziale che, però, non viene mai svenduta ad una troppo superficiale facilità di approccio: il testo va letto con attenzione e con spirito da esploratore, va scoperto, va indagato per trovare una risposta tanto agli interrogativi propri del piano narrativo, quanto a quelli seminati nel suo sottobosco da chi gli ha dato vita. Proprio per questo, e ciò è esattamente il suo punto di forza, è un libro che dà piena soddisfazione, specie come quando – ed è la mia umile speranza – porti con te la convinzione di essere riuscito ad entrare nell’intenzione e nell’appassionato gioco di chi lo ha scritto, condividendo con l’autrice l’ammiccamento complice di aver capito il testo, e forse anche qualcosa del mondo immenso che vi soggiace. Questo meraviglioso gioco di invisibili sguardi, capaci solo tra “me” e “il mio amico”, comincia dalla prima pagina e si estende fin oltre la storia, in quelle poche righe che costituiscono la nota finale e i ringraziamenti.

Ma qui, su chi debba ringraziare l’altro, se l’autrice o il lettore, la questione rimane irrisolta. E perché mai risolverla? Un ringraziamento è già di per sé una magnifica soluzione.

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