Intervista a Veronica Tomassini, autrice del nuovo romanzo “Vodka siberiana”, che ha deciso di pubblicare da sé. «Spiace non avere meritato nemmeno una risposta dalle major editoriali. la seconda persona è congeniale alle cose che racconto, diventa invocazione, una preghiera, un vocativo. Racconto quello che ho visto, dopo la caduta del muro di Berlino creature umane uscirono dalla coercizione come golem, sparuti, terrificanti, urlavano l’oltraggio, l’eco paurosa ci raggiunse, dovevo raccontarlo; ero una testimone, mio malgrado, concorrevo a definire destini oscuri e tragici».
Dopo Mazzarrona (ne abbiamo scritto qui), la scrittrice siracusana Veronica Tomassini compie un audace salto nel vuoto con Vodka siberiana – lettere inedite e alticce. Salto nel vuoto, sì perché il libro è stato autopubblicato dalla stessa Tomassini (ed è possibile acquistarlo rivolgendosi direttamente a lei, via social) infrangendo il consueto iter editoriale a cui gli scrittori si sottopongono prima di vedere il proprio lavoro tra gli scaffali nelle librerie.
Ti sei pentita della scelta? – le chiedo durante la nostra intervista. La sua risposta è un secco No. «No. Non ho perso, ho soltanto guadagnato – dice Veronica Tomassini -. Non avrei ottenuto di più, ma di meno. Cosa può non succedere? Non avrò un premio? Non sono una da premi. Presentazioni, festival a cui non andare? Non amo molto l’avvenimento pubblico. Adesso poi non è proprio il tempo per noti fatti contingenti».
Le chiedo se l’abbia fatta incazzare di più – mi fermo immediatamente chiedendole se quell’espressione è consentita per un’intervista. Lei non mi corregge, io proseguo a chiederle se, a farla incazzare, fosse stata più l’attesa di un esito da parte delle case editrici o il pensare che ci fosse qualcuno più avvantaggiato di lei. Con il garbo che la contraddistingue, trascurando anche il mio confidenziale atteggiamento, Veronica (che ha scritto questo articolo per LuciaLibri) risponde che le è «dispiaciuto «di non aver “meritato” nemmeno una risposta. Il mio agente non ha ricevuto dalla major che non citerò nemmeno una risposta a seguito del rifiuto. Il gesto l’ho sentito come una specie di mortificazione, no, lo era e basta».
A chi hai inviato il libro prima di scegliere l’autopubblicazione?
«Se n’è occupato il mio agente Patrizio Zurru – dice la Tomassini -. Il testo ha girato parecchio, credo».
Come nei suoi precedenti romanzi anche in Vodka siberiana il luogo in cui tutto si compie è la periferia, uno spazio altro, un luogo di tutto e niente: di lutto e luce, direbbe Bufalino. Perché non sei mai scappata da quelle periferie che racconti?
«Sono stata perseguitata da un assillo ingannevole, salvare, salvare. Chi? Cosa? Per un tarlo ho ceduto il meglio che avevo: la giovinezza e una manciata di speranze. Dovevo fuggire, ma sono stata trafitta da tutti i miei deserti. Un giorno mi diranno: sai, quello era il talento. Peccato che ti tolga tutto. Alza il tiro e ti toglie tutto. E tu sei Abramo con Isacco, ma non hai la stoffa del santo»
Sei riuscita ad accettare quel «mondo capovolto che deteneva una sua profondità, una verità sotterranea»?
«Ho trovato casa, tra gli apolidi, i senza qualcosa. Nel mondo capovolto, come nella pozzanghera mirgorodiana, ho veduto me stessa, finalmente viva, misera, abietta e pietosa. Ed ero io, finalmente a casa, tra i senza qualcosa».
Cosa hanno di diverso dagli altri, gli ultimi, i senza qualcosa?
«Hanno una profondità da indagare, autentica. Hanno la primitività e l’innocenza che insegnerà sulla vita quel che smarriamo, la legittimità di restarvi in questa vita. Sono lo scarto e la pietra d’angolo, sono lo strumento della nostra conversione; il perfezionamento di uno spirito passa attraverso la loro privazione, il loro mondo mancato, parco e ostile. Durante le mie passeggiate pomeridiane, lungo una vecchia ferrovia in disuso, mi capita di osservare – a ridosso di mulattiere infestate da cardi – le mostruosità di cemento che raccolgono l’umanità con indosso la tunica della privazione. È la periferia. Casermoni anneriti dalla miseria, finestre minuscole e frananti da cui non vedi nulla, nemmeno fiochi lumicini di brevi interni domestici, poveri e dignitosi alla De Amicis. Più che altro senti le urla dell’uomo deteriore, il disordine, il rumore disarmonico, il latrare di cani ringhiosi, abbaini pericolanti, luce nera a mezzogiorno, e maiali frugare su rupi dure e campagne rocciose. Tutto molto parossistico, ridicolo, commovente. E lì, soltanto, in quel paesaggio, riassumo il senso, qualora davvero lo riconoscessi tale, il senso della parabola».
Veronica Tomassini parla come se stesse scrivendo l’ennesimo romanzo perché, in fondo, tutta la sua intera esistenza lo è. Tra pietre e margini, la scrittura-vita di questa autrice assolve e disincanta – o disincarna – il lettore che alle sue pagine e ai suoi libri si avvicina indifeso. Farà. il lettore, assai presto i conti con una parola infuocata e tuttavia accogliente, esattamente come accade con la figura del Professore di Vodka siberiana che ama la letteratura, prova a salvare quella creaturina mezza zingara dalla bolgia di quella periferia, con la poesia e la letteratura che assolvono e condannano ma in modo diverso rispetto al metodo rude di chi la sconosce. Tuttavia lui stesso è affetto dal male incurabile della schizofrenia. Il ciclo del male e del bene si intersecano e si contaminano nella letteratura di questa scrittrice. Quello raccontato da sempre dalla Tomassini, come direbbe anche una brillante poetessa napoletana, Armanda Guiducci ,è un vivere per strappi.
La scelta di scrivere per stralci, raccolti in collage, o in forma di diario a cosa è dovuta?
«Ho utilizzato l’espediente letterario delle Lettere, la seconda persona, che diventa invocazione. Una preghiera. Un vocativo. Il metodo che mi ritorna sempre, in quasi tutti i miei romanzi, la seconda persona; congeniale alla materia delle cose che racconto. Così terrene da rifulgere nell’ampio salto fino al desiderio per cui siamo disperati e imprecisi, l’attesa verso le altezze. Non sai esaudirla».
Racconti quello che hai visto, o vivi quello che scrivi?
«Il che è uguale, scrivo quello che ho visto. Ho vissuto quel che continuo a scrivere. Qui c’è un disavanzo, la scrittura sulla vita. Il primato non è mai della seconda. La seconda ha avuto una solapossibilità, una riserva temporale. Un lasso, alcuni anni, epocali. Sono finita dentro la Storia che attraversava anni anonimi, metà anni ’90, ma in realtà erano anni epocali, apocalittici. Si spostava il mondo, era caduto il Muro, la democrazia aveva definito nuovi confini, violabili, insicuri, manipolando creature umane uscite dalla coercizione come golem, sparuti, terrificanti, urlavano l’oltraggio, l’eco paurosa ci raggiunse, dovevo raccontarlo; ero una testimone, mio malgrado, concorrevo a definire destini oscuri e tragici. Lo farà undì, la parola. Di quelle creature amene, portatrici di una tragedia universale irreparabile – priva in fondo (perlomeno per me) di un linguaggio letterario che la esplicasse – ovvero la desolazione, la miseria morale, la nostalgia che diventa crudeltà dello sradicato, ne ho tradotto una poetica. È stato un caso, mi ci sono trovata dentro, per futili motivi. Per amore. Vodka siberiana racconta quegli anni, un esperimento empirico, la tradotta di uomini alticci, consegnatari di empietà. Un amore scandaloso, la pietra d’inciampo, la sazietà borghese, lei (l’Occidente), la deregolamentazione, la ferocia epica al di là dellacortina (l’Est Europa, il pinnacolo babelico), ragioni sostanziali,che sfuggivano al buon pensiero. La storia di questi bevitori, uomini ics, diventa un riscatto, la fiocina che li infilza, nome per nome, restituendo una qualche dignità, degradata e parziale».
È vero che la tua opera è molto apprezzata in America?
«Il mio romanzo d’esordio, Sangue di cane, è stato oggetto di studio, di un saggio (Righteous Anger in Contemporary Italian Literary and Cinematic, edito dalla Press University di Toronto, a cura di Stefania Lucamante), di corsi (sulle passioni, ad esempio) e convegni, in diverse università americane. Quindi sì, in America, mi ha spiegato l’autore del saggio su Sangue di cane, sono un canone».
Mi concedo un’ulteriore confidenza con la scrittrice, facendole una domanda scaturita banalmente dal sottotitolo del libro: Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce.
Ti è mai capitato di scrivere da ubriaca?
«No, no. Ma il mio sguardo a volte diventa nebbioso, è come se inforcasse la via accecante. Dunque è come se lo fossi, ubriaca».
In Vodka è la voce narrante a parlare alla bambina ma accade mai il contrario a Veronica Tomassini?
«La bambina non era più felice. La bambina era complessa, vessata. Combatteva contro la violenza di un alter ego, era il male che la vessava».
Veronica è più donna o più bambina?
«Sono la ragazza interrotta di Susanna Kaysen»
Ti hanno definita scomoda. Che vuol dire essere una scrittrice scomoda?
«Mah. Scomoda. Forse una che non vuole somigliare a qualcos’altro (tutto sommato precipuità di ogni essere umano), una che rifiuta di essere collocata, sistemata, che forse non scrive mai quel che consola, quel che ci si aspetta. Una che dovrebbe tacere, e non lo fa. Non sta zitta. Erige torrioni piuttosto, con fierezza e ostinazione, dove costringe tutte le febbricitanti ossessioni a rimirarsi in uno specchio, lo specchio si chiama scrittura o la retrovia di uno sgarbo collettivo chiamato: coscienza (civile, borghese, morale, fate voi). Cosa sia la coscienza, avrei molto da eccepire. Una che scava fossati, dove sarà l’unica a ripararvi sconfitta, per ciò volutamente vittoriosa».
Qual è la definizione che dai alla Tomassini scrittrice?
«Incollocabile».