Autobiografia sui generis, autofiction prima e meglio di celebrati viventi, “Calende greche” è forse il libro più intimo di Gesualdo Bufalino. Nuovo pretesto per parlare di vita, morte, Dio, e di brevissime gioia e serenità. Spicca su tutto il culto delle parole, che incombono nella vita del protagonista, lo lusingano e corteggiano, lo salvano e lo annientano
Non il più amato, non il più intenso, non il più struggente, non il più misterioso, non il più audace. Forse, ma solo forse, il più intimo. Quello da portare nell’isola deserta. Se c’è un libro di Bufalino che mi resta nel cuore, da leggere e rileggere – e che probabilmente s’addice a chi molto ha letto del geniale letterato comisano – è Calende greche (231 pagine, 11 euro), edizione Bompiani, bignami di una carriera letteraria e auto-antologia di pezzi che sembrano cover dei libri precedenti, quelli pubblicati negli anni Ottanta. Autobiografia sui generis, autofiction prima e meglio di celebrati viventi, ricordi e varianti immaginarie di una vita di un comune uomo, cresciuto e vissuto al Sud, «cuccia di profondo buio», e coacervo di liriche e lettere, prosa e aforismi, tutte le specialità della casa che Bufalino aveva sfoggiato e che tornano in questo volume, che è solo un pretesto parlare ancora – con quella prosa che è sontuosa sinfonia – di morte e di vita, di Dio («Dio sarebbe un ragno, dunque? Il Grande Ragno, il Ragno dei Ragni? E noi gli appetibili insetti, presi nel vischio delle Sue trame?»), e, principalmente, di gioia e serenità, sebbene brevi.
Incluso il presente, fanno nella mia vita sedici minuti in tutto di felicità.
Un singolare patchwork
In Calende greche, diviso in cinque parti (Nascita, Infanzia e Pubertà, Giovinezza, Maturità, Vecchiaia e Morte), Bufalino non esita a sperimentare prima, seconda e terza persona all’interno della narrazione, e si concede diversi passaggi di intertestualità, con brani evidentemente provenienti da sue precedenti opere, un singolare patchwork. Minimo comun denominatore di questa vita raccontata, in cui tutti e nessuno possono riconoscersi, è la parola letta e scritta.
Hai letto e scritto per sessant’anni, ogni giorno, come si beve, si mangia, si digerisce, si defeca. Mangiavi e bevevi libri, mangiavi e bevevi vita, quindi spurgavi vita e libri su un foglio bianco e l’indomani ricominciavi.
Le parole di una vita
Le parole incombono nella vita del protagonista, lo lusingano e corteggiano, lo salvano e lo annientano. Sono estasi e seduzione, disperazione e tormento. Inanellate con scioltezza e cura, musicalmente, lungo tutti i capitoli, che seguono le tappe della vita di un uomo della provincia iblea e il suo senso di sostanziale incompiutezza, tra delusioni e vanità: un bimbo che gioca, un ragazzo che s’innamora, un inetto soldato in guerra e ricoverato al sanatorio della Rocca, e poi il ritorno alla vita («sterile, un angelo buonannulla che gira casa con le dita sporche d’inchiostro e gli occhi sonnacchiosi di un’uggia che non si sana»), a quella da figlio straniero (coi genitori che lo implorano di ridere o piangere: «Entusiasmi o lacrime, non importa, purché cessi questa tua immobile malinconia») e da insegnante, e ancora il fallimento davanti al peludio della morte. Speranze, illusioni, vuoto e morte sono cucite con parole ora attente, ora eccessive, sempre terapeutiche.
Diavoli siete, parole. Angeli, siete. Brusche, melliflue, ombrose… ora carte veline, pelurie, petali di ninfea che s’infiora; ora schegge di vetro, spine, carboni ardenti…
Morte, opposizione e desiderio
Con memoria menzognera Bufalino fa raccontare al suo protagonista amori non corrisposti e amori vissuti, risolti, e il sempre vivo confronto, conflitto con Dio, che però non esiste o, nella migliore delle ipotesi, vive nascosto, in incognito. Somma e compendio dei suoi temi, questo romanzo potenzialmente infinito svela lo scrittore siciliano, fantasma che però «mangia e beve e dorme e porta panni», lo mette a nudo, pur nell’invenzione romanzesca che corrompe l’autobiografismo, nella «fanfara triste della vita», nella cieca opposizione alla morte che si confessa nelle ultime pagine: cuore che vuol morire, corpo che vuole vivere, uomo che ha amato «libri e donne con la stessa inesperta voracità. Leggendo e lodando le loro menzogne per verità travestite. Mai giudice, complice sempre». Nell’opposizione al congedo alla vita e, però, anche al suo desiderio, dicendosi, scrivendo a se stesso: «Con tutto ciò tu credi di credere di non voler morire».