Un sanatorio dove la tisi consuma i polmoni, un tempo successivo alla seconda guerra mondiale, un luogo di aranci e brezza marina. Il protagonista di “Diceria dell’untore”, esordio di Gesualdo Bufalino, è in bilico fra vita e morte, farà i conti con un sentimento che lo legherà a una compagna di sventura e con una nuova condanna, la guarigione, dove invece la malattia era stata comunione e amore. Pagine con una singolarità linguistica che ne fanno non un autoerotismo estetico, ma una risultante poetica di immenso spessore
Un sanatorio è una sospensione, uno spasimo tra il tempo dei viventi e quello di chi, tra i viventi, cerca ancora di immaginarsi, nonostante tutto. È un luogo al di fuori dello spazio comune, ordinario, condiviso. Possiede una comunità, un’ordinarietà, e certamente è palcoscenico di quotidiane condivisioni di speranze e di angosce, ma sono meccanismi quasi disincastrati dal reale; perché un sanatorio è una realtà autonoma, parallela, al confine tra il mondo e ciò che in mezzo al mondo non può stare. Non è ancora un lazzaretto, perché chi vi si trova non è già un condannato, non necessariamente, non ancora, non subito. Non è più, però, un semplice ospedale, perché vive già il dramma di una dedica precisa, una titolazione infame ad una qualche malattia che, rispetto alle altre, ha richiesto spazi propri perché – in qualche modo – ha una maniera tutta sua di dichiararsi importante e reclamare il proprio salario. Per cui, chi vi si trova, anche se ancora consegnato alla promessa di una vita futura, si sente già staccato dalla vita precedente, dove cure e diagnosi non avevano ancora bisogno di separazioni sacre ma potevano ancora essere amministrate tra i viventi.
Se poi, questo sanatorio è sospeso tra la terra e il mare, e tra la terra e il cielo, in questa triangolazione quasi metafisica fatta di una sbeffeggiante bellezza, allora la sospensione si fa più forte perché più oltre la vita.
È lo sfondo di Diceria dell’untore (203 pagine, 12 euro), edito da Bompiani, primo romanzo di Gesualdo Bufalino, primo per chi l’ha scritto e per chi, soprattutto, dopo averlo letto, non può non richiamare a sé altre suggestioni dello stesso Autore.
Un universo misto e mistico
La trama si consuma, e il verbo non è casuale, su un’altura siciliana ove sorge un sanatorio per malati di tubercolosi: la Rocca. Il profumo degli aranci in fiore, la brezza marina che da lontano promette effluvi di nuova linfa vitale, e il silenzio che circonda il luogo, sono tutti agganci sensoriali che precipitano il lettore all’interno della storia dove, tra i tanti degenti, una coscienza inquieta e narrante si fa voce di un universo misto, e mistico, costituito da descrizioni esterne ed interiori, di processioni di persone e di eventi, come pure di sensazioni e oniriche trepidazioni. Certamente, dietro questo io che racconta, c’è lo stesso Autore, che approfitta dell’accadimento letterario per celebrare il proprio memoriale.
La vicenda si svolge subito dopo la Seconda guerra, e si articola fin da subito giocando con l’ironia di chi, sfuggito alla mietitura bellica, adesso è costretto a combattere una battaglia coi suoi stessi polmoni. Compagni d’arme, in questa trincea odorosa e riparata, disturbata solo da una continua mitraglia di colpi di tosse, sono tutti gli altri pazienti, e il personale sanitario. Tra i primi vien fuori, un po’ per volta e quasi come dalle quinte d’una ribalta, una giovane ballerina ventenne, già vittima delle persecuzioni razziali, della violenza nazista, degli abusi subiti nel corpo e nella mente e, non ultime, persino delle accuse di collaborazionismo, per aver avuto la colpa d’essere troppo bella ed essere stata fatta oggetto di squallide attenzioni da parte del nemico.
Estasi diafana
Il narratore, che ci descrive tutto ciò con un linguaggio su cui torneremo tra poco, rimane giorno dopo giorno impietrito da quest’estasi diafana, dove la carne della giovane si consuma come il tempo: lui può ancora guarire, lei invece è condannata. Occorre dunque danzare in fretta, prima che il sipario si chiuda. Ma non è fretta che si possa percepire immediatamente: tutto scorre in modo placido, proprio come certi sentimenti discreti che, pagina dopo pagina, si accumulano senza correre, concedendosi ciascuno il proprio spazio di espressione, maturando un po’ per volta, infettando d’amore questi due spiriti, adesso doppiamente ammalati. Bufalino fa lavorare i sentimenti come i bacilli di Koch, lentamente, sostituendo agli sbotti di sangue l’irruenza della loro potenza espressiva.
E nel frattempo un medico osserva, attento, il decorso dei due mali. “Il Gran Magro”, primario del sanatorio, così chiamato dai degenti per la sua figura, si fa indiscreto diagnosta tanto della malattia che li unisce, quanto dell’amore che li tradisce, e dal quale egli si sente escluso, estromesso. Nel paradosso di due vite che non si arrendono alla morte, egli si sente morire e affila le povere armi della sua miseria, per ricondurre quei due corpi sul sentiero del loro più comune ed immediato destino, facendo in modo che non ci si metta anche l’amore a confondere l’atmosfera di quel luogo. E nel segreto del suo ufficio, traccia segni e disegni che – come un vile documento postumo – qualcuno ritroverà solo alla fine, quando anche lui dovrà rendere conto della malattia che lo rodeva dall’interno, e che non è detto fosse la tisi.
La fuga estrema
Dal quasi immoto procedere delle prime pagine, si passa man mano ad un’azione più veloce, animata da un’agitazione incontenibile: è quella della fuga estrema, del rifugio definitivo tra i segreti di un amore inconcepibile a chi lo guarda dall’esterno, e che deve compiersi in altri luoghi, lontani da occhi indiscreti e miscredenti. Così, nel riparo occasionale di un albergo galeotto, la tragedia culmina nei suoi due compimenti, quello fisiologico e quello spirituale. Il sipario si chiude e la voce narrante, che sfila davanti a spettatori anonimi ed inconsapevoli, scende dal palcoscenico e ritrova una via stretta tra un pubblico diverso da quello iniziale. Non più altri infermi con cui condividere l’attesa incompiuta della fine: sono tutti morti. E resta, nel cuore del sopravvissuto, l’amaro rimorso di non aver adempiuto la mai confessata eppure condivisa promessa degli infermi, quella di non sopravviversi a vicenda. La guarigione diviene una nuova condanna, dove invece la malattia era stata comunione e amore. Ma è la vita. E questo io narrante la decanta al meglio della sua polemica morale, consegnandola a noi neanche come una storia, o un racconto, ma – appunto – come una misera diceria, un mezzo aneddoto, una cosa che si dice in giro senza la pretesa che sia vera eppure, inspiegabilmente, contagia: la diceria dell’untore.
Romanzo impressionante, oltre che per il contenuto, anche per la modalità di scrittura, per la sua genesi, per la sua lunghissima redazione (durata trent’anni). Tutti elementi che ne fanno più di un vero capolavoro, mostrando che ogni libro rimpolpa il concetto di letteratura, ma che questa non si lascia bastare un libro come spazio di esistenza: è fatta di vita che precede, accompagna e segue ogni stesura, ogni pubblicazione, ogni ingranaggio editoriale.
Parole che esigono ogni attenzione
A chi prende in mano questo libro, e lo comincia a leggere, accade l’inciampo immediato di una scoperta sensazionale: un linguaggio inconsueto, a tratti difficile, certamente ricercato senza che appaia come un’ossessione estetica. Le parole, insomma, che esigono dal lettore ogni attenzione, perché esattamente come i contenuti della storia, non possono rimanere sulla superficie del linguaggio comune. Non è una cosa comune ciò che si racconta, e allora viene messo in moto fin da subito un processo stilistico di compensazione: da un lato la difficoltà, la fatica, forse il dolore di dover raccontare, dall’altro la difficoltà, la fatica, e il patimento di dover decodificare e capire, di dover creare confidenze di senso con semantiche nuove, mai incontrate prima, che si affacciano da vocaboli ed espressioni che hanno resistito al flusso narrativo, imponendosi come infermieri severi affinché, dal momento in cui si inizia a leggere, ogni lettore diventi degente, ed ogni parola un farmaco difficile da mandare giù ma necessario.
Curioso come Bufalino, rapito da un’ispirazione inconsueta, abbia deciso di scrivere questo libro solo in un secondo momento, concedendo il primo spazio agli elementi strutturanti. Come un Picasso, dove il soggetto è visibile ma si esprime nella sua frammentarietà costitutiva: dove non è un volto a mostrarti i suoi elementi, ma sono questi elementi a costruire un volto; dove un occhio è troppo occhio, o una bocca è violentemente bocca, o ancora un sopracciglio si conquista uno spazio iperbolico che sembra violare il senso ma poi al senso ti riporta. Così Bufalino, in questo libro. Ogni parola, ogni elemento testuale, viene inserito sulla tela della pagina come evento a sé stante, come una singolarità linguistica che – in un primo momento – richiede tutta la tua attenzione; e solo dopo, parola dopo parola, ogni frammento ti riconduce al tutto maggiore delle sue parti. Una cosmologia letteraria, pittorica nella scelta cromatica delle sonorità e dei richiami, una lunga e composita allitterazione di suoni e di significati che si sfiorano tra la parentela dei sinonimi, e la contiguità dei concetti espressi sempre in modo preciso e indubitabile. Il risultato non è – come già detto – un autoerotismo estetico, ma una risultante poetica di immenso spessore, dove davvero Bufalino si fa maestro della lingua, non solo per la processione continua di parole che incontri per la prima volta, e che egli invece utilizza con grande esperienza, ma perché nessuna di esse ti offende. Sono parole imprigionate anch’esse dentro un sanatorio, quello del desueto, e che ne fuggono come i protagonisti della storia, vivendo il loro momento di gloria e di bellezza.
Un filo rosso, un unico destino
Così è nato questo libro, senza l’intenzione che fosse tale; almeno non all’inizio. Rapito dalla bellezza di cinquanta parole di uso non comune – così egli confiderà a Leonardo Sciascia – Bufalino si provò in una fatica orgogliosamente letteraria, quella di creare un filo di narrazione che le unisse tutte! Bufalino ha fatto, forse in modo inconsapevole, ciò che la tisi compie nel romanzo: unisce in un unico filo rosso le vite così diverse e aliene di tanti sconosciuti che, ad un certo punto, si ritrovano ad essere depositari di un unico destino.
Per certi versi, il tentativo linguistico appare molto simile a quello di Tommaso Landolfi, e dei suoi Racconti impossibili, ma ci sembra che Bufalino abbia sortito un più efficace effetto, salvando le capre e i cavoli di un lessico ardimentoso e di una narrazione indiscutibilmente accattivante.
Per concludere. Il testo non è certamente tra quelli che consiglierei ad un giovane lettore, né a chi – pur non essendo giovane – non avesse dimestichezza con la lingua. Peraltro, lo prescriverei senz’altro a chi, essendosi già da tempo ammalato di lettura, non conoscesse ancora tanta bellezza e tanta ingegnosità letteraria. È un romanzo che, incastrato tra i miasmi di una fortezza che ne richiama un’altra, ti convince che anche tu debba attendere l’avvento, prima o poi, di un nemico ineluttabile. Ma che invece, ad un certo punto, ti permette l’incontro con qualcos’altro. E questo qualcos’altro, che vive tra la vita e la morte, ti salva e ti condanna.
Il Premio Campiello, che Bufalino vinse nel 1981, anno della sua pubblicazione con Sellerio, è solo l’ultimo tra gli omaggi che potrebbero essere tributati a questo capolavoro. I migliori premi, come sempre, sono quelli conferiti dal cuore dei lettori che porteranno con sé, per tutta la vita, il microbo infestante di una memoria che – pur non avendola vissuta – apparterrà loro per sempre.