Una settimana dedicata a Gesualdo Bufalino, in occasione del centenario della nascita che ricorrerà il 15 novembre. In “Argo il cieco” la scrittura arabescata e lussureggiante si innesta su una sorta di diario tardivo di un sessantenne, che evoca un tempo felice, ragazze avvenenti, ma soprattutto il sapore della memoria che si condensa sulla pagina scritta, incuneandosi nelle piaghe della vita quasi manipolandola
Da sempre affascinato dalle storie di ciechi (su tutte il racconto di Raymond Carver Cattedrale, per chi scrive un assoluto delle narrazioni brevi), la mia scelta su quale romanzo scegliere per iniziare a scoprire Gesualdo Bufalino, del quale ricorre il prossimo 15 novembre il centenario della nascita, è automaticamente caduta su Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria (160 pagine, 10 euro), edito da Bompiani. Che poi in fondo in questo secondo romanzo pubblicato nel 1984 dell’autore nato a Comiso e insegnante per alcuni anni a Modica, il quale ha esordito nel mondo delle lettere tre anni prima, alla “verde” età di sessantuno anni con il celebrato Diceria dell’untore che gli varrà tra l’altro il premio Campiello, non c’è alcun riferimento diretto a persone non vedenti. Il titolo evoca la gigantesca creatura della mitologia greca “Argo Panoptes” (Argo che tutto vede), figura dai molteplici occhi, chi ne enumera quattro, chi persino cento, disseminati lungo tutto il corpo.
Reminescenza e oblio
Il tema della reminiscenza, e dell’oblio ad essa legata (la cecità), è il fulcro di questa stupefacente opera di Gesualdo Bufalino, nella quale la stessa voce narrante risponde al nome di Gesualdo. L’alter-ego dello scrittore? Solo in parte, perché l’autobiografismo, sicuramente presente, è abilmente trasfigurato dai “cento occhi” dell’autore, con una scrittura riccamente arabescata, lussureggiante, in alcuni casi debordante nei suoi picchi lirici e allo stesso tempo con una intrinseca recondita armonia, barocchissima, come la terra dalla quale Bufalino proviene, quei paesi della provincia ragusana, quel sud-est della Sicilia patria di tante meraviglie del Barocco, scrittura che raggiunge vette inaspettate, con interminabili circonvoluzioni e idilliche acrobazie, in altri con dialettiche e colloquiali fughe nel dialetto, arcaismi, incursioni nel parlato, quella pura materia verbale, “gale di parole e merlettature di concetti” come li ebbe a definire Enzo Siciliano, cose che a dispetto dell’innumero vocativo del soggetto che declama, si intersecano alla vicenda popolana rusticana e proustiana del racconto popolare.
Un gioco di maschere
Come suggerisce il titolo la memoria è forma e sostanza del romanzo, una sorta di diario tardivo di un sessantenne che dalle spoglie e malinconiche stanze della sua dimora romana lascia scorrere sul foglio quella fatata estate di trent’anni prima nella natìa Comiso, rievocando le avvenenti ragazze siciliane che si sporgono dai balconi delle loro case, quelle “angele ragazze”, tutte brune, su tutte Maria Venera, la quale aspetta un bambino da un cugino, la più bruna, quella che lui amava non corrisposto, benché: «L’amo, ma lei che c’entra, la cosa riguarda me», Maria Venera «remota dietro la sua salvaguardia di intransitivo sussiego e di nobilissime pietre». Questo accade in quell’estate del 1951 nella quale confessa «fui giovane e felice» e nella quale si trova a rievocare per medicina dei suoi eccessi d’angoscia la sua gioventù nella «odiosamata» terra di Sicilia, da Roma, sulla scia delle reminiscenze nelle notti insonni grazie alle quali ci racconta delle sue pene d’amore in quella lontana estate, amori sognati, mancati, consumati con Cecilia, una bellissima soubrette arrivata in paese, e svaniti come una fiamma che arde e si spegne troppo velocemente, amori che sono le sue allieve di allora, tanto c’è di autobiografico nel romanzo di Bufalino il quale sposerà in età avanzata proprio una sua studentessa. Una continua messa in scena che è un gioco di maschere, tra ricordi di balli, scorribande con gli amici e i colleghi di insegnamento, fra le giornate trascorse al Circolo dei Civili tra partire di biliardo e quelle «vite che ammuffiscono in interminabili repliche». C’è quindi una sorta di duetto con se stesso, uno sdoppiarsi dell’io in due città e due età diverse, un effetto phasing che provoca nel lettore un ipnotico, felice e allucinatorio disorientamento.
L’odiosamata vita
Il tema proustiano della memoria, il disfarsi nel ricordo della giovinezza ormai lontana e il suo nostalgico riaffiorare durante le notti insonni segnano il tempo del racconto e sono allo stesso tempo un recuperarlo: «La palla che lanciai ragazzo, mentre giocavo nel parco, non ha ancora toccato il suolo», confessa Gesualdo. «Un romanzo di felicità non proprio sulla felicità» come ne è stato detto, una felicità sicuramente espressiva, quella del “pupo e puparo” Bufalino, «Il più corrusco nume contemporaneo del bello scrivere» come lo definirà Luciano Satta, un autore che con la sua scrittura densa e pastosa ha rinnovato quel patto di resistenza della letteratura contro l’omologazione del linguaggio perpetrato dalla società di massa, che ha fatto della letteratura la propria vita perché scrivere (e leggere) non è che una forma vicaria del vivere, dovendo riconoscere come osservato da Pietro Citati, che per poter leggere ha creduto di rinunziare alla vita, ma che, alla fine si è trovato in mano solo un pugno di cenere. Eppure «L’odiosamata vita» rivendica prepotentemente la sua presenza in Bufalino, e in Argo il cieco, aldilà del «bluff di parole» e dei barocchismi, il gusto del fantasticare, del teatro ad occhi chiusi certifica l’eccelsa statura di uno dei più grandi autori del nostro Novecento, non solo uno scrittore di “parole”, sebbene lontano da scrittori di “cose” come i a lui più geograficamente prossimi Verga o Sciascia, un autore certamente affascinato da una certa estetica decadentista, il suo amore per Baudelaire lo testimonia e singolare e significativa in tal senso è la sua retroversione dall’italiano al francese de I fiori del male visto che non possedeva la versione originale. Gesualdo Bufalino, un uomo di immensa cultura, il quale riguardo ai problemi del presente, affermò: «La cura è una sola: libri libri libri», ma non solo, anche il cinema, altro suo grande amore, soprattutto quello francese e americano, la musica, soprattutto il jazz, e la traduzione dal francese.
Scrivere, protesi del vivere
Il gusto dolceamaro del ricordo, il sapore della memoria che si condensa sulla pagina scritta, incuneandosi nelle piaghe della vita quasi manipolandola è il più bel lascito di Argo il cieco, un capolavoro della nostra letteratura, quasi un manifesto estetico dell’autore siciliano nato cento anni fa, come confesserà nel finale intimista, rivolgendosi direttamente a noi lettori, consegnandosi al patibolo (del giudizio), come in film della Nouvelle Vague, quando gli attori si rivolgono direttamente alla cinepresa parlando allo spettatore: «Scrivere è stato per me solamente un simulacro del vivere, una protesi del vivere».
Bufalino e`stato insignante per molti anni a Vittoria, non a Modica,!
d’accordo, ma i primi due anni di insegnamento, dopo l’abilitazione del 1949, a Modica…