Abate, la storia di Carminù bella e buona come un bottafico

Con una lingua fra tradizione e immaginazione – ma senza siparietti folcloristici con pagine e pagine piene di dialettismi – Carmine Abate, ne “L’albero della fortuna”, ci porta all’interno di un universo la cui semplicità è talmente arieggiata da farla sembrare a tratti irreale…

Se la qualità di un libro dipendesse solo dalla copertina, allora avrei impiegato questa mezzoretta per fare qualcos’altro piuttosto che scrivere una recensione. Ma un libro, fortunatamente, non sempre coincide con la sua copertina; e fortunatamente, non sempre lo scegli da solo ma – come in questo caso – ti arriva un bel giorno a casa, perché tu lo legga. E tu «prendi e leggi», come S. Agostino, e arrivi sino alla fine. E dici: «Menomale, perché se fosse dipeso da me non l’avrei mai comprato!» (la copertina è importante). Ma è il bello indescrivibile dell’ignoto che ti viene affidato. Ed ha un certo miele sapere che da un libro, quando lo apri per la prima volta, non ti aspetti assolutamente niente se non ciò che ne verrà fuori, al netto di ogni pregiudizio positivo o negativo. Anzi… Se proprio vogliamo dirla tutta, ci sarebbe la copertina a condizionarti giusto un poco, ma fai finta di non vederla e anzi giri il libro, guardi negli occhi la gigantografia dell’autore, in quarta, e gli dici: «Io farò in modo di non pensare alla copertina, ma tu metticela tutta a convincermi!».

I fichi

Così è cominciata la lettura de L’albero della fortuna (14 euro, 176 pagine), di Carmine Abate (Aboca edizioni). Mi correggo, del Premio Campiello Carmine Abate, sì, perché non conosco a memoria tutti i vari Campiello, e dal ‘63 ad oggi qualcuno mi sfugge. Ecco. Mi era sfuggito anche lui. L’ho scoperto dando un’occhiata alla vita e alle opere, e ciò è accaduto già alla terza pagina.

Scusate se vi intrattengo noiosamente con la descrizione di questi dettagli personali sul come e sul quando, ma credo siano funzionali – in ultima istanza – a capire qualcosa in più sul libro. Già, perché credo sia utile sapere che, se già alla lettura della terza pagina di un libro assolutamente sconosciuto ti viene voglia di scartabellare in giro alla ricerca di informazioni, allora vuol dire che il testo ti ha già colpito abbastanza.

Ma è soprattutto una cosa che mi ha colpito, e non è certo la notizia del Campiello vinto da Carmine Abate nel 2012 con La collina del vento. Si tratta di cose meno nobili, meno intellettuali, la cui potenza attrattiva supera – almeno per me – quasi ogni altra cosa: i fichi.

E non ridete. Primo, perché persino Guccini dovette sentire la necessità, un giorno, di dedicare ai gustosissimi frutti una canzone (dove, appunto, diceva: «Io non capisco la gente che non ci piacciono i fichi!»), e lui è senz’altro sufficientemente intellettuale da sdoganare i fichi a vantaggio di un più elitario pubblico; secondo, appunto, perché l’albero della fortuna a cui il titolo del libro si riferisce (e che compare in copertina, tra un verde oliva anemico e un malva talpa anonimo, e con classificazione tassonomica annessa) è proprio un albero di fico, piantato in una terra semplice e feconda come quella calabrese, di cui la penna di Abate è un significante perfetto.

Una tenera simpatia

La storia comincia subito all’ombra di quest’albero, la cui aura paterna invita immediatamente il lettore ad una sorta di sosta immaginaria tra i pensieri e le riflessioni del piccolo protagonista, un Carminù sospettosamente autografo, che non può non ispirare subito una tenera simpatia, a causa della sua perenne e fallimentare battaglia contro le “grisce” che assediano vittoriose i suoi “bottafichi”.

Vi vedo perplessi.

La lingua utilizzata da Carmine (o da Carminù, chi lo sa…) è a metà fra la tradizione e l’immaginazione; parole che risentono sia del dialetto locale, facilmente individuabile, sia pure della grande fantasia dell’autore il quale, con destrezza poetica, non fa molta fatica a coniare suoni che possano dare al lettore il senso pieno di un oggetto descritto: non perché ogni lettore disponga di chissà quali competenze linguistiche; quanto piuttosto per il fatto che Abate si concede il lusso di estendere l’orizzonte delle proprie aspettative fino al punto in cui qualcuno, animato dallo stesso impeto artistico di chi scrive, potrebbe riuscire a cogliere, attraverso tutti i suoni scelti a questo scopo, i diversi concetti che l’autore ha in testa e vuole consegnare. Un po’ come fanno i bambini quando, giocando a far volare razzi, inventano e fischiano rumori che nessuno ha mai sentito, e che tuttavia i loro amici interpretano perfettamente.

Ci aveva magnificamente provato Fosco Maraini, prendendosi decisamente più spazio in questo gioco metasemantico. Carmine Abate, invece, sdilenca più cautamente, affarfandoci non troppe nuove sonorità, ma quelle giuste per non appesantire il testo, per renderlo gradevole all’orecchio e perfettamente abitabile, e soprattutto per non trasformarlo nel solito siparietto folcloristico di chi pensa che riempire pagine e pagine di dialettismi sia sempre utile, popolarmente dotto e – perché no – anche divertente. Abate, non cede allo stesso errore; al contrario, scende a compromessi con l’intenzione rurale della sua scrittura, educandola a saper interagire con chi ha desiderio di entrarvi un po’ per volta.

Alcune parole chiave

Si registrano alcune parole chiave, però, che si incontrano spessissimo. Addirittura quasi ad ogni pagina; la qual cosa deve farci supporre con ogni probabilità che Abate abbia voluto farlo apposta. Così, ad esempio, “bottafichi” o “grisce”, termini poco sopra presentati. I primi sono i fioroni del fico, i primi frutti, quelli più grossi e succulenti, oggetto delle innocenti brame del bambino; le grisce invece sono le ghiandaie. E poiché il bimbo controlla continuamente che queste ultime non gli facciano fuori i suoi frutti preferiti, ecco che quelle due parole compaiono sempre, perché, semplicemente, i bambini non si sforzano di ricercare sinonimi ed evitare ripetizioni. Anzi! La reiterazione è proprietà tipica del bambino, inconsciamente immortale, propulso ad eternare ogni cosa, specialmente ciò che costituisce il suo ambiente vitale. Abate lo sa e non umilia il ragazzino, mostrandolo diverso da come il buon senso, l’innocenza e le descrizioni del suo mondo ce lo farebbero immaginare fin dal primo istante.

Ed è proprio attraverso questa tenue naturalezza, presente in ogni pagina, che ci si immerge sempre più all’interno di un universo la cui semplicità è talmente arieggiata da farla sembrare a tratti irreale; e tuttavia non è l’irrealtà di un’inverosimiglianza, al contrario, sembra di respirare l’aria di certi vecchi film, quelli del dopoguerra in stile Amedeo Nazzari, girati con pochi soldi in qualche scorcio di campagna, dove tutto ti sembrava troppo calato nella verità da sembrare “veramente” un film.

Il piano di suggestione è il medesimo: la storia di Carminù, accompagnato nei suoi anni più belli da tutti i movimenti di un mondo che egli vede cambiare troppo in fretta, è talmente verosimile che difficilmente – mentre leggi – ti convinci che sia “veramente” solo una storia. Cominci allora a capire che forse tutto quel racconto è autobiografico oppure, se non lo è del tutto, rimani incastrato nei mille tentativi di comprendere quali elementi possano essere autobiografici e quali no. Solo che dura poco. Sì, perché nel frattempo sei diventato Carminù e allora, esattamente come lui, ti interessano poco le altre cose che non siano quelle a te più care, più vicine: gli affetti e le preoccupazioni del bambino cominciano a diventare le tue, finché Carmine Abate, proprio nel momento in cui avviene l’inevitabile transfert, comincia ad inserire i trucchi del mestiere: la sceneggiatura del racconto, sempre più simile ad una pellicola, inizia a presentare tutti quei richiami, quelle tipiche prefigurazioni a qualcosa di ineluttabile che sta per succedere, solo che non sai cosa. Ma lo intuisci. Perché quando ci si affeziona a qualcosa, o a qualcuno (e quando questo qualcosa e questo qualcuno coincidono nella verità del simbolo), allora cominci a temere di perderlo.

Cesellatore e regista

Nel crescere di questo timore Carmine Abate si mostra non solo un bravo cesellatore nei migliori intagli linguistici, ma anche un efficacissimo regista: le scene ti portano lì dove tu vuoi che ti si conduca, placando solo un po’ la tua fretta di arrivarci, ma lasciandoti la soddisfazione di aver indovinato. È uno di quei pochi casi in cui, pur avendo tutti gli elementi per poter prevedere certe risoluzioni, non ti arrabbi per esserci riuscito; capisci che lo scrittore sapeva che ci saresti arrivato da solo, e ha fatto di tutto per accompagnarti, come in una specie di gioco di squadra tra lui e te, dove la fine è raggiunta grazie ad entrambi, dove scrittore e lettore hanno compartecipato alla riuscita del finale.

Così, mentre leggi – almeno, così mi è capitato – ti capita mille volte di rigirare il libro e osservare ancora la gigantografia dell’autore, in quarta. Sono tentativi di contatto con un’immagine che vorresti sia un volto vero, capace di risponderti, e magari lo ha proprio fatto nella pagina che hai appena sfogliato.

Poi riguardi la copertina, e cominci a provare un moto di compassione. Documentandoti giusto un poco hai scoperto che il libro fa parte di una collana (Il bosco degli scrittori), dove ogni romanzo è dedicato ad un albero diverso! “Accidenti, allora c’era un motivo per questa copertina orrenda” ti dici a mezza voce, capendo di essere stato troppo severo con quella che, in fin dei conti, è solo la custodia di un testo così bello e buono, proprio come un bottafico.

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