Nell’età dove tutto è mercato, arte inclusa, l’etica del lavoro culturale, la condizione della professione di artista e le sue possibilità sono indagati in “Uccidi l’unicorno” di Gabriele Sassone. Fra interrogativi parzialmente irrisolti, ad esempio: forse si diventa artisti quando, entrando nelle logiche della produzione, si uccide l’unicorno, l’innocenza e la purezza…
Un’intera notte per ragionare sull’arte, sul lavoro, sull’arte come lavoro. Per farsi domande, ripercorrere la vita di tanti artisti e rileggere qualche autore. Una notte di panico, in cui ingaggiare una battaglia con un allegorico unicorno. Protagonista di tutto questo lavorio notturno è il quarantenne voce narrante del libro di Gabriele Sassone (nella foto di Piotr Niepsuj) edito da Il Saggiatore: Uccidi l’unicorno (220 pagine, 19 euro). Titolo emblematico quanto il sottotitolo: epoca del lavoro culturale interiore. Perché è lì che rimbalza tutto il libro, nell’intercapedine tra mondo dell’arte, contemporaneità e vita interiore, arrovellandosi sul senso di fare arte oggi, su come quest’arte possa relazionarsi al mondo del lavoro e diventare, per alcuni, una professione.
Vita d’artista
È notte quando il protagonista di Uccidi l’unicorno riceve una telefonata che lo getta nel panico: il professore ospite d’onore al convegno che l’istituto dove lavora promuoverà domani ha perso l’aereo. Dovrà sostituirlo lui: una platea di duecentocinquanta ospiti, una relazione da esporre in inglese e da preparare oggi, subito, seduta stante. Il titolo: L’arte nell’epoca dei social media. Una suggestione vasta, che pure inchioda il protagonista davanti a una galleria di nomi, spunti e domande in una convulsa notte di frenesia, ansia e dubbi.
Cosa significa essere un artista oggi? Il percorso parte da qui, con riferimenti che guardano da una parte dalla storia dell’arte, dell’altra al mondo dei social, o meglio al mercato su cui l’arte è diventata un prodotto come tanti. La condizione degli artisti è la scusa per sondare un sistema che, lontano dai sogni e dalle illusioni velleitarie, è prima di tutto economico. Si può dunque essere artisti per professione, oggi? Si può vivere di arte, oppure l’artista resterà sempre il cosiddetto “creativo”, costretto a ripiegare su scelte professionali più immediate e lineari, e a delegare al tempo libero il tempo per l’arte?
La questione è aperta: slide dopo slide, mentre la notte procede e il protagonista frammenta il suo lavoro con episodi passati e riflessioni soggettive, scorrono esempi di vite d’artista che hanno approcciato la questione complessa dell’intreccio tra arte e lavoro in maniera differente, da Duchamp a Van Gogh, passando per le illustrazioni di Edouard Riou.
La condizione del lavoro
Ecco dunque il dispiegarsi del sottotitolo: il lavoro culturale interiore, e il legame con un’epoca, quella attuale, fatta di like, click, produzione e contraddizioni. Che cos’è, oggi, il lavoro culturale, dunque quello artistico, che ne rappresenta una parte? C’è ancora un fuoco che lo anima, l’idea del bello che ne è alla base, oppure è solo una serie di scorporate azioni finalizzate al puro guadagno personale? Nell’età dove tutto è mercato, arte inclusa, l’etica del lavoro culturale, la condizione della professione di artista e le sue possibilità sono aspetti indagati dall’autore in profondità.
Uccidi l’unicorno di Sassone è costellato di riferimenti non solo alle vite di alcuni artisti, alla loro produzione, ma a una parte di letteratura italiana novecentesca che proprio della condizione alienante del lavoro si è occupata. Ecco così comparire Paolo Volponi, Federigo Tozzi, Luciano Bianciardi, Giuseppe Berto, parolieri di riflessioni che oggi, a ben vedere, sono ancora aperte anche se in contesti differenti da quelli originali.
Che cos’è l’arte oggi? È il quesito guida del libro, ma a questo si affiancano altre domande cariche di attualità, come quella, pressante, sul lavoro e la sua etica. «È sempre più difficile distinguere la fiction dalla non-fiction, l’immagine dall’oggetto, la replica dall’originale, il prezioso dal superfluo. Il lavoro dal non-lavoro» riflette il protagonista rinsaldando così il legame tra il mondo dell’arte ai tempi dei social e quello del lavoro, sempre più liquido, irrispettoso di tempo libero, affetti, famiglia.
Ombre allacciate alla gola come punti interrogativi
Uccidi l’unicorno di Gabriele Sassone è un libro di interrogativi parzialmente irrisolti, ma anche di ombre che si allacciano alla gola, quella del protagonista «incapace di proiettare la [sua] ombra sul mondo». Corpo e ombra insieme, il panico lo assale nel ricordo dell’infanzia, la paura del bambino che sentiva il padre uscire per andare in fabbrica e non voleva andare a scuola, e così arriva il panico adulto di dover sostenere un discorso davanti a una platea. Una notte sola per fare i conti con un sacco di mostri, quelli interiori e quelli che si agitano sul mondo dell’arte come professione.
Il tempo di questo libro è conciso, eppure dilatato insieme. La vicenda si svolge interamente in una lunga notte tra il divano, il bagno, la camera da letto di un piccolo bilocale dove il protagonista vive con la moglie e il figlio piccolo. Sul livello concreto è una notte necessaria per creare un discorso e delle slide, domare il panico costellando le ore del sonno altrui di piccoli incidenti domestici che riportano il protagonista alla realtà, ai suoi affetti, alla propria fragilità. Ma è anche una notte per ripercorrere una biografia intera che include episodi dell’adolescenza, dell’infanzia, di quel limbo chiamato giovinezza, tra la laurea e le prime esperienze lavorative.
Una notte che è poi una galleria su alcuni grandi personaggi dell’arte, indagine dai risultati e dalle suggestioni ogni volta differenti sul rapporto tra arte come professione, creatività, mondo del lavoro. Una notte, infine, di duello con l’unicorno, mitologica metafora evocata fin dal titolo che farà la sua irruzione a metà romanzo, nel cuore di una notte di slide e riflessioni.
Kill the unicorn
Fulcro del discorso al convegno sarà la riflessione su chi produce arte oggi: gli artisti, dunque. Ma quando una persona comune diventa un artista? Quando accadeva ai grandi della storia dell’arte e quando avviene oggi? Forse la domanda ha a che fare con l’unicorno: si diventa artisti quando, entrando nelle logiche della produzione, si uccide l’unicorno.
Il titolo del libro non è che una citazione da un brano di heavy metal che dice “kill the unicorn”. Un riferimento pop per un’immagine carica di simbologie. Perché l’unicorno rappresenta la giovinezza e i suoi valori perduti, sacrificio obbligatorio alle porte di un mondo del lavoro che vincola e ingabbia nelle logiche perverse del ciclo di produzione. L’uccisione dell’unicorno è «la distruzione dell’innocenza e della purezza; la distruzione di ciò che è sacro. La distruzione di ciò che è bello»: rituale da compiere per accedere all’universo della vita professionale.
Il protagonista si domanda dunque se e quanto sia auspicabile diventare un «monodimensionale, uno scontento, un impiegato». Si sente una vittima. Vittima della tecnologia che ha soffocato il tempo libero e con lui le potenzialità, di una crisi da eccesso, quella che satura il mercato, di una meritocrazia sottomessa a scale di potere, dello sciogliersi del discrimine tra vita privata e professionale. Ed è questo male moderno a pungere nel petto tra una crisi di panico e un pensiero frustrante. Subisce e si lamenta, la voce narrante, senza tuttavia reagire: uno «sfasciato» che ormai può solo ricalcare foto e immagini collezionate, come fanno più o meno tutti online.
Tra un incidente con il cavo del computer e la disperazione di una notte insonne, tutto vacilla in bilico sugli interrogativi di un modello economico che sembra stare inghiottendo anche l’arte. Sarà valsa la pena uccidere l’unicorno? L’importante è non smettere di domandarselo.