Finalista al premio Lattes Grinzane, l’israeliano Eshkol Nevo si racconta e racconta genesi e motivi del suo successo “L’ultima intervista”: «Sapevo di fare una cosa sui generis e che stavo correndo un rischio grosso, per cui sentivo il cuore battere forte, eppure l’obbiettivo è sempre proporre qualcosa che non sia già stato vissuto prima dai lettori, e nemmeno da me stesso. Rompere il formato tradizionale della trama mi ha permesso di ritornare all’ingenuità degli esordi»
È stata un’edizione tutta particolare quella 2020 del Premio Lattes Grinzane, vinto da Elif Shafak. La cerimonia conclusiva si è infatti svolta ad Alba, sì, ma anche in streaming, con i tre finalisti stranieri Eshkol Nevo, Elif Shafak e Daniel Kehlmann collegati via web dai rispettivi paesi, e in sede gli italiani Valeria Parrella e Giorgio Fontana.
È dunque online che si è svolto anche l’incontro stampa con l’israeliano Eshkol Nevo, autore per Neri Pozza di L’ultima intervista, letto da 400 ragazzi delle giurie scolastiche che lo hanno fatto arrivare tra i finalisti del Premio, ma anche del volume illustrato uscito in Italia a maggio, subito dopo il lockdown, Vocabolario dei desideri, raccolta alfabetica di racconti legati al desiderio e usciti su Vanity Fair e pubblicati in una prestigiosa edizione sempre da Neri Pozza.
L’ultima intervista è arrivato in finale proponendo un format nuovo per un romanzo: è un esperimento che, allestendo una trama vera e propria, scava dentro il senso della scrittura, mettendo in scena la vita di uno scrittore e il suo complicato rapporto nel gestire il filtro che separa la scrittura creativa dall’autobiografia. Un crinale sul quale Nevo si è avventurato in un libro che è difficile etichettare, ma che, sapientemente, dà spazio agli stessi interrogativi su cui si arrovella il protagonista. Dalle domande di routine che la stampa è solita porre agli autori, lo scrittore si avventura per sentieri che aprono risposte in forma di racconti, e tra il presente e il passato, i personaggi che compaiono di volta in volta e l’evolversi delle relazioni con loro che l’intervistato snocciola domanda dopo domanda, la lettura familiarizza con la forma narrativa che questo libro, nonostante l’espediente insolito, presenta.
Il gioco dell’intervista
«All’inizio era un gioco che giocavo con me stesso – ha raccontato l’autore a proposito dell’innovativa forma di L’ultima intervista – mi ponevo delle domande e cercavo di rispondere nel modo più onesto possibile, dicendo anche verità brutali». Il romanzo è nato infatti come finta intervista in cui un autore risponde alle domande di un sito internet mettendosi totalmente a nudo nelle proprie fragilità, dubbi e domande irrisolte. Come in altri lavori di Nevo l’intreccio di elementi biografici e di temi preponderanti come l’amicizia, i desideri dell’uomo, le riflessioni su Israele, costituisce il perno di un libro non comune, nel solco del quale emerge anche una riflessione affatto scontata sulla scrittura, il suo ruolo e la sua relazione ambigua con la realtà. Un elemento, quest’ultimo, che connota il romanzo e che si è rivelato un espediente metaletterario capace di trasformare un esperimento nato in un momento di vuoto creativo in un lavoro strutturato: «dopo tre, quattro mesi di scrittura mi sono fermato, ho dato un’occhiata al testo e mi sono reso conto che stavo scrivendo un romanzo – ha svelato infatti l’autore – c’era un personaggio, c’erano dei motivi principali, una trama: mi ero allontanato dalla biografia per avvicinarmi alla finzione letteraria».
Il sospetto che si tratti di un’autobiografia spacciata per romanzo anima la lettura, ma è al contempo il libro stesso ad avvisare: la scrittura modifica la realtà in un’alternanza perpetua di verità e finzione. Fidarsi è difficile, più immediato invece è familiarizzare con una storia, con le tante storie che ruotano intorno al personaggio e che, magia della narrativa, accomunano anche i lettori. Come ha spiegato Nevo stesso: «il libro è ambivalente rispetto allo storytelling: da un lato c’è l’ossessione del protagonista per le storie, lui non riesce a dire la verità pura e semplice ai suoi cari e usa le persone vicine come veicolo per raccontare storie. Addirittura, aiuta un politico durante la campagna elettorale a trovare la storia giusta per essere eletto: questo è il pericolo delle storie. Dall’altro lato della nostra necessità di narrare c’è infatti il nostro non raccontare la verità, ma quel che ci viene comodo in quel momento». Un’ossessione per il racconto che dà forma al libro stesso, perché è proprio così che il personaggio risponde alle domande che gli vengono fatte: narrando. «Questo lavoro – ha proseguito l’autore – mi è servito per trovare un modo di scrivere autentico, mi ha aiutato a riavvicinarmi a ciò che avevo abbandonato. Qual è infatti il senso della scrittura e delle storie, esserne ossessionati? Rompere il formato tradizionale della trama mi ha permesso di ritornare all’ingenuità di quando iniziai a scrivere: all’epoca non ero un grande raccontastorie, volevo solo scrivere e questo facevo, ero più autentico. Uno scrittore si trova sempre invischiato in una ragnatela che è una prigione ma è al contempo qualcosa di potente e liberatorio, sia per lui che per il lettore».
Luce e oscurità: dal libro al cinema
Un romanzo nuovo, dunque, quello della cinquina Bottari Lattes 2020, ma insieme anche un tassello coerente nel percorso di uno scrittore particolarmente apprezzato dal pubblico italiano. Difficile non scorgere nella trama e nei personaggi di L’ultima intervista un rimando all’esplorazione già affrontata, per esempio, in Tre piani, o in La simmetria dei desideri. «Ogni volta che qualcuno analizza i miei libri parlando di temi ricorrenti mi sento confuso, perché per me ogni libro è una nuova avventura, quindi quando scrivo dico a me stesso che sto facendo qualcosa di nuovo», ha ammesso l’autore.
«Quando ho scritto Tre piani non sapevo cosa stavo scrivendo, ho semplicemente messo nero su bianco la storia, non conoscevo lo scopo – ha raccontato Nevo – due mesi dopo la pubblicazione uscì una recensione dal titolo “Tre piani, un romanzo che parla del lato oscuro della genitorialità”: l’ho letta e ho pensato che sì, era così, ma se l’avessi saputo prima di mettermi a scrivere mi avrebbe spaventato». Chissà cosa avrà letto Nanni Moretti nel romanzo che presto arriverà sul grande schermo e sulla cui visione anche l’autore si è dichiarato curioso di scoprire le interpretazioni inedite del regista, auspicando di poter tornare al cinema magari proprio in Italia.
Il lato oscuro della scrittura, che si intreccia alla realtà mentendo sempre, appare dunque come la controparte necessaria della luce e del racconto. Quando gli si chiede se questa parte ombrosa sia presente in lui come scrittore, ed emerga con consapevolezza nella creazione letteraria, Nevo preferisce però parlare di tristezza, una sorta di malinconia coltivata dai vent’anni, dall’epoca del servizio militare in Israele o del girovagare per il mondo zaino in spalla.
«Mi sentivo consumato da una sorta di nostalgia e infelicità che mi portava a rimuginare sul passato e a solidificarne la presenza: non mi muovevo da lì – ha raccontato – non mi confezionavo uno spazio per vivere nel presente. In quanto scrittore, ho trasportato la nostalgia e i desideri inespressi nei miei personaggi: è stata un’azione liberatoria. Ora non so se ho superato in maniera totale questa nostalgia, questa tristezza interiore, ma scrivendo sono riuscito a dare un significato a quei sentimenti, ho messo nel cuore e nei pensieri, nelle voci dei personaggi tutti quei rimpianti che tutti abbiamo avuto e di fronte ai quali siamo dovuti arrivare a compromessi. Sono sentimenti in cui il lettore può identificarsi, ritrovandosi nelle pagine del libro e scoprendo di non essere solo. Il lato oscuro, così, diventa un po’ sfumato».
Un nuovo romanzo e l’esperienza del lockdown
Amore, solitudine, desiderio sono i grandi temi archetipici che in tutta la produzione di Nevo ritornano a costruire i cardini delle storie. «A L’ultima intervista aggiungerei il tema della morte, con l’amico del protagonista malato terminale – ha spiegato poi analizzando il suo attuale lavoro – in questi giorni sto finendo di scrivere il mio ultimo romanzo e mi sembra qualcosa di completamente diverso da quelli scritti in precedenza. Cerco sempre di proiettarmi verso cose nuove, uscire dalla mia zona sicura: per esempio in L’ultima intervista ho fatto mio un format molto particolare, l’intervista che tesse le fila del romanzo. Sapevo che stavo facendo una cosa sui generis, qualcosa di anomalo e strano, e che stavo correndo un rischio grosso, per cui sentivo il cuore battere forte, eppure l’obbiettivo è sempre proporre qualcosa che non sia già stato vissuto prima dai lettori, e nemmeno da me stesso».
Qualcosa di nuovo come l’esperienza globale di una pandemia. Affrontare il lockdown da scrittore, con un bagaglio di malinconie, pensieri forse irrisolti, e privandosi dei viaggi e della frequentazione diretta con le persone, non è stata un’esperienza banale nemmeno per lo scrittore israeliano, che ha raccontato di non potersi muovere da febbraio e di aver patito molto l’impossibilità di spostarsi, seppure il periodo sia stato prolifico dal punto di vista letterario e lavorativo. «Come scrittore – ha confessato – non ho nessun vantaggio ad affrontare la solitudine: io amo le persone, viaggiare, incontrare gli amici. Non mi sento allenato alla solitudine e i mesi che abbiamo vissuto sono stati una grande sfida. È una situazione assurda in cui ci troviamo tutti e in cui cercare di empatizzare, condividere sentimenti anche se non possiamo abbracciarci e ci vediamo solo tramite uno schermo».
Scrittura, dunque, con un romanzo in uscita e tante collaborazioni, non ultima quella con il Corriere della Sera, e poi le lezioni con gli studenti di scrittura creativa, a distanza, «ma mi sento come un fiore a cui manca l’acqua: ho bisogno di vedere gli amici, di musica, eventi culturali, arte, ne abbiamo tutti bisogno in quanto esseri umani. Avrei tanto voluto essere ad Alba, incontrare le persone, condividere il buon vino della zona, i tartufi… Dobbiamo resistere».
Tra Israele e Italia
Una resistenza che, per un autore da sempre impegnato anche sul fronte dell’impegno politico, non ha cessato di coinvolgere Nevo negli affari del proprio paese sia come scrittore, con numerosi articoli, sia come cittadino. L’autore ha raccontato di un kit appositamente approntato per le manifestazioni pubbliche, quelle che da diverse settimane si stanno succedendo in Israele contro il primo ministro e l’accusa di corruzione. Dimostrazioni, ha chiarito, tra le più partecipate della storia di Israele, con centinaia di persone in piazza. «Amo profondamente il mio paese – ha dichiarato – penso dunque che un coinvolgimento politico sia necessario per dimostrare questo amore. Mi sono reso conto che è qualcosa che sono chiamato a fare se voglio garantire a mia figlia di vivere in un paese democratico».
Non c’è solo Israele però nel cuore di Nevo, dove uno spazio privilegiato è riservato proprio all’Italia, con cui l’autore ha un legato speciale. «Per questo paese nutro un sentimento particolare – ha detto ai giornalisti in sala e collegati – sento che per me è una seconda casa letteraria: i lettori si appassionano alle parole che scrivo sulla carta, durante i reading pubblici vengo avvicinato da lettori che mi ricordano aspetti dei miei libri che avevo dimenticato, e sento un forte legame con loro, penso sia un sentimento autentico, vicendevole. A volte in paesi nuovi, dove i tuoi libri non sono molto conosciuti, come autore non ci si sente pienamente accettato dalla comunità dei lettori, è una sensazione che fa sentire lontani da casa e fa perdere il senso di identità. In questo periodo mi è mancato molto viaggiare e potermi riconoscere negli altri: mi è mancata molto l’Italia, il Salone del libro di Torino, la mia caccia alle storie che faccio sempre quando sono nel vostro paese».
Un caso che tra le pagine e le lettere del Vocabolario dei desideri si inciampi in una curiosa I di Italo Calvino, a cui l’autore si è ispirato per creare la nuova città invisibile di Rondovia? «La letteratura italiana è molto popolare in Israele – ha raccontato Nevo – forse per la vicinanza d’animo tra i due paesi. Gli autori italiani sono letti negli anni di formazione, fanno parte della nostra dieta letteraria». Tuttavia, l’incontro con Italo Calvino non è avvenuto tra i banchi di suola, ma in una circostanza ben più avventurosa, dall’altra parte del mondo, e più specificamente in Bolivia, sul lago Titicaca, quando una copia delle Città invisibili finì tra le mani del giovane Eshkol Nevo viaggiatore in un ostello. Fu proprio sulla terrazza di quel rifugio sudamericano che lo scrittore iniziò a leggere, scoprendo così la voce di Calvino. «Dopo due pagine – ha ricordato – mi sono reso conto di non aver mai letto qualcosa di simile, che meritava una lettura ponderata e non rapida. Bisognava prendersi il proprio tempo e leggerlo con attenzione: rimanemmo là due giorni, io e il mio compagno di viaggio che era impaziente di ripartire e mi spronava, ma io volevo finire il libro lentamente come mi ero ripromesso. La cosa bellissima delle Città invisibili è che si finisce per inventare la propria città: all’epoca avevo 24 anni, aspettai fino ai 25 per dare vita a Rondovia: è un omaggio a Calvino, al suo genio, alla sua giocosità nella scrittura. Quando si leggono i suoi libri si gioca con lui, e io per questo gli sarò eternamente grato».