“Le città di carta” di Dominique Fortier è una storia personale di scoperta ma soprattutto un ritratto di Emily Dickinson. Attraverso accostamenti di immagini talvolta lirici, talvolta pindarici Fortier permette di far emergere la delicata forza del carattere della Dickinson, tratteggiata fuori dal cliché dei testi di critica letteraria
La voce e l’intelligenza di Dominique Fortier arrivano per la prima volta in Italia grazie ad Alter Ego, che sceglie di aprirsi alla letteratura straniera. Lo fa con il sesto libro dell’autrice, apprezzata editor e traduttrice canadese, Le città di carta (192 pagine, 16 euro), tradotto da Camilla Diez. Le città di carta sono i mondi di Emily Dickinson, protagonista di un libro che è un po’ una ricostruzione biografica, un po’ una storia personale di scoperta, ma soprattutto un ritratto della più grande poetessa americana, che ha il pregio raro di intrecciare con delicatezza e potenza simbolica del linguaggio in un percorso tra ieri e oggi. L’io dell’autrice-ricercatrice appare tra un frammento biografico e l’altro, contrappunto allo svelamento di una figura di donna e di una voce uniche.
La casa al centro
Nella sua stanza ci sono un letto, un comò, un tavolino con una sedia e pile di libri ovunque. Nei libri ci sono tutti i paesi del mondo, le stelle del cielo, i fiori, gli alberi, gli uccelli, i ragni e i funghi. Moltitudini reali e inventate. Nei libri ci sono altri libri, come un palazzo di ghiaccio in cui ogni specchio riflette un altro specchio, via via più piccolo, finché gli uomini non diventano delle dimensioni di una formica. Ogni libro ne contiene cento. Sono porte che si aprono e non si chiudono mai. Emily vive in mezzo a un’infinità di correnti. Le ci vuole sempre uno scialletto di lana.
C’è Emily, all’inizio di questa storia, Emily che è già una città, con più giardini che chiese, con la neve che la copre di inverno, quando le cince scrivono sul suo manto «poemi bianchissimi». E poi c’è Amherst, Massachussetts, «una cittadina fuori dal tempo e dallo spazio». È lì, nella fattoria di Homestead, che vive la famiglia della donna destinata a diventare una delle più importanti figure della letteratura. La casa, fin dal nome – come non manca di sottolineare Dominique Fortier – è al centro di questa storia, ricostruzione e riflessione su Emily Dickinson.
Homestead è l’infanzia, “la casa”, porto e rifugio insieme, un pezzo della famiglia, forse il più importante. Homestead è però soprattutto il libro di Emily, la sua vita interiore di immensa profondità, la sua urgenza di riversarsi sulla pagina. Lo intuisce bene la Fortier, che con rispetto e un po’ di timore non si decide a scoprire Homestead nella sua versione reale, preferendole i colori e le immagini della voce poetica. Nessuno potrà rubarla: è una città di carta, come quelle sulle mappe esplorate con i fratelli Austin e Lavinia, negli unici viaggi che Emily abbia mai desiderato compiere, quelli immaginari
Amherst quindi, Boston, dove la piccola Emily è stata, il collegio di Mount Holyok, l’immaginaria Linden: i luoghi reali e sognati accompagnano la ricostruzione della vita della poetessa, rarefacendosi fino a convergere tutti dentro la casa. Tutto è lì, al centro: «nel cuore delle cose, nel punto più profondo di se stessa». Una stanza, una penna dentro cui riversarsi. Attraverso la casa i luoghi della Dickinson si fanno luoghi di carta, mondi da abitare con la letteratura: case, città, spazi interni, giardini, magari coperti di neve.
Il giardino e la neve
Nella prima pagina dell’erbario Emily raccoglie quindi ciò che occorre allo scrittore che, senza saperlo, o forse sapendolo, già è: il colore per l’inchiostro che le servirà a scrivere e disegnare, qualcosa per farle luce, un mezzo per attirare le farfalle, un balsamo contro il freddo – e i fiori per il tè. Come le sue piante, anche lei ha passato l’inverno tra le pagine di un libro.
Alla bambina, poi ragazzina e infine donna che ama stare sola, immersa nei suoi pensieri – già pensieri di carta? – nella pace di Homestead, ben si addice un luogo come il giardino, un intero universo. È lì che Emily raccoglie storie: osserva, colleziona fiori e li conserva nei libri stupendosi perché «i libri si dissetano con l’acqua dei fiori». Parole mai casuali, quelle della Fortier, che attraverso accostamenti di immagini talvolta lirici, talvolta pindarici, eppure sempre così calzanti, permettono alla delicata forza del carattere della Dickinson di emergere dalla pagina, creano l’atmosfera sospesa del linguaggio poetico, ponte per l’altrove.
Alla futura poetessa parlano i fiori, da leggere come storie dentro l’erbario, e le api, i sogni sospesi di ragazze nel college. Soprattutto i libri. E la neve, come il bianco della carta, è una superficie da riempire, pagina bianca che copre il dolore, conosciuto in profondo fin da piccola. Così le sagome di lei e dei fratelli bambini impresse nella neve sono impronte sulla “pagina bianca del giardino”, così nella sua stanza ci sono i quaderni ancora immacolati «che aspettano tutto ciò che ancora non esiste – gli uccelli, gli alberi e i pianeti che popolano la sua testa, quest’altra stanza segreta».
C’è un volto intimo di Emily Dickinson nel racconto che di lei fa Dominique Fortier: sono insieme delicati i toni e potenti le immagini che, accostando colori, oggetti e scorci, restituiscono la profondità della visione e della riflessione dell’autrice sulla figura della Dickinson, tratteggiata con una voce, un carattere, fuori dal cliché dei testi di critica letteraria.
Un salto nell’oggi
È molto tempo ormai che abita nella sua casa di carta. Non si possono avere al contempo la vita e i libri – a meno di scegliere i libri una volta per tutte e di metterci dentro la propria vita.
Una bambina caparbia, Emily, un adulto in miniatura: decisa e risoluta nelle azioni come resterà da grande, decidendo del proprio destino con la calma consapevolezza di volersi immergere nella letteratura, la sua città di carta. Pregio di questo libro-ritratto è quello di rileggere la figura della celebre poetessa nella cornice di una modernità psicologica. I pensieri di Emily sono vivi, parlano al lettore, i gesti sono determinati, maturi, così come estremamente dignitosa e vibrante è la poesia che la abita, quella fermezza di sguardo che, fin da ragazzina, sapeva conoscere – e scegliere – il proprio destino.
Racconti e storie dalla biografia della poetessa si alternano, in Le città di carta, a racconti personali sulla vita dell’autrice, in particolare sui suoi traslochi e sulle tante case cercate, arredate, cambiate, impacchettate in scatoloni fino a dimenticarne frammenti, congelati in istanti di vite ormai alle spalle. Il tempo trascorre nel percorso dell’autrice in compagnia della Dickinson: ci sono i biberon che non servono più, ci sono le spese pazze all’Ikea, c’è il mondo.
Tutto quel mondo che la Dickinson sceglie di rifiutare gradualmente, ostinandosi, col passare degli anni, a non uscire più di casa, e poi dalla sua stanza, dalla quale parla con i rari visitatori attraverso una parete. L’evasione dello sguardo resta la finestra che dà sul giardino, sugli alberi e sui loro abitanti, fremiti di vite che con tanta potenza simbolica compongono l’universo di Homestead, e quello interiore della giovane Emily. Lei li annota in poesie su pezzi di carta intrisi di farina e chiodi di garofano, da un lato una ricetta, dall’altro i versi che andranno, più avanti, a comporre un mosaico sul pavimento. Il pavimento di un mondo tutto di carta, a cui la poetessa scelse di dedicare l’intera vita: un voto alla letteratura, uno sguardo sulla pagina, finestra attraverso la quale osservare il mondo.
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