Ne “Il ghetto interiore” Santiago H. Amigorena racconta la vicenda del nonno che alla fine degli anni Venti del Novecento lasciò la Polonia per l’Argentina, e dei suoi sensi di colpa e rimorsi dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale quando la madre gli scriveva dal ghetto di Varsavia. Una storia che per certi versi è quella dell’autore…
L’identità è la concezione che un individuo ha di se stesso nell’individuale e nella società, l’insieme di caratteristiche che lo rendono unico e inconfondibile. L’identità non è immutabile, ma si trasforma con la crescita e i cambiamenti sociali. Per citare il filosofo Umberto Galimberti, essa presuppone una serie di vincoli che in qualche modo si pongono in conflitto con la nostra “presunzione di libertà” perché non è altro che il frutto del riconoscimento degli altri. Tra i più terribili crimini commessi durante l’Olocausto vi è proprio questo: l’aver confinato gli esseri umani in un’identità tale da privarli dalla possibilità di poter essere altro, in cui consiste propriamente la libertà; l’aver impedito agli uomini e alle donne di smettere di pensarsi come ebrei; l’aver deciso definitivamente e immutabilmente chi sono. Il rapporto tra identità e libertà è ampiamente trattato nell’ultimo romanzo dello sceneggiatore e produttore cinematografico, nonché scrittore Santiago H. Amigorena, Il ghetto interiore (pagine 138, euro 17), pubblicato dalla casa editrice Neri Pozza e tradotto dal francese da Margherita Botto.
Assistere impotenti da lontano
Venticinque anni fa ho cominciato a scrivere un libro per combattere il silenzio che mi soffoca da quando sono nato.
Amigorena racconta la storia del nonno, l’ebreo polacco Vincente Rosenberg che nel 1928 lascia la Polonia per raggiungere l’Argentina con pochissimi soldi in tasca. Si sposa con Rosita, figlia di esuli ebrei russi, diventa padre di tre figli, apre un negozio di mobili e vive in una deliberata e insieme inconsapevole noncuranza di ciò che sta accadendo in Europa. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando la Germania invade la Polonia, Vicente inizia a ricevere una serie di lettere dal ghetto di Varsavia, in cui sua madre lo informa delle tragiche condizioni di fame, malattia e disperazione in cui versano i reclusi e della vana lotta che suo fratello, medico, conduce ogni giorno per alleviare le loro sofferenze. Vicente reagisce alle lettere della madre con un atroce senso di colpa che lo fa sprofondare nell’isolamento e nel silenzio che lo alienano da qualsiasi contesto sociale, anche familiare. Da quel momento la sua esistenza muta radicalmente: smette di essere quello che è stato, ovvero polacco, soldato, studente, marito, padre, argentino, venditore di mobili, per diventare solo e soltanto l’ebreo che assiste impotente al dolore delle persone che ama nel silenzio, nel ghetto interiore dei suoi pensieri.
Vincente era un giovane ebreo. O un giovane polacco. O un giovane argentino. In realtà, quel 13 settembre 1940 Vincente Rosenberg non sapeva ancora di preciso chi fosse.
Essere ebrei, polacchi o persino argentini non ha alcuna importanza dinanzi all’assoluta libertà di vivere senza essere definiti in base a un’identità, un’etnia, una religione. L’arrivo in Argentina lo allontana sempre di più dal suo essere ebreo, ma l’eco delle barbarie commesse dai nazisti ben presto lo costringono a fare i conti con quell’identità. «Come mai a volte diciamo di essere ebrei, argentini, polacchi, francesi, inglesi, avocati, medici, professori, cantanti di tango o calciatori? Come mai a volte parliamo di noi stessi con la certezza di essere un’unica cosa, semplice, fissa, immutabile, una cosa che possiamo conoscere e definire con un’unica parola?», pensa il nostro protagonista. E uno dei tanti flussi di coscienza di cui è costellato il romanzo: monologhi interiori che fanno emergere l’individuo Vincente con i suoi conflitti interiori, le sue emozioni, i suoi sentimenti.
Il disagio di un’identità fluida
Zygmunt Bauman definirebbe la sua identità fluida per la perdita dei confini identitari (culturali religiosi, etnici, ecc..), ovvero dei riferimenti essenziali per il proprio io. Fluida perché non ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte. Il disagio in cui sprofonda ha origine proprio dal problema dell’identità, dal bisogno di evitare qualsiasi tipo di “fissazione” del proprio io, ciò a cui i tedeschi nazisti hanno costretto gli ebrei: un’identità statica; la negazione della libertà di scegliere di essere ciò che si vuole. Vincente è un uomo che, per quanto ebreo e per quanto abbia rifiutato tale identità, è rapidamente diventato polacco, e poi, altrettanto rapidamente, argentino. È solo a partire dal 1941 che inizia a provare un odio per se stesso: si odia per essersi sentito polacco e si odia ancora di più per avere provato una simpatia per la Germania al punto da voler essere un tedesco.
Come tutti gli ebrei, Vincente aveva pensato di essere molte cose finché i nazisti non gli avevano dimostrato che a definirlo era un’unica cosa: essere ebreo.
Un’identità fluida che si trasforma in un’identità unica: essere ebreo diventa una definizione che esclude tutte le altre. È solo quando inizia a scoprire ciò che sta accadendo in Europa che si sente più ebreo.
Mentre la madre e il fratello sono rinchiusi nel ghetto di Varsavia, Vincente è imprigionato nel ghetto interiore, fatto di un silenzio profondo, continuo, insistente e ostinato. Vuol far tacere quelle voci che lo interrogano sulla propria identità, corroso dai sensi di colpa per “aver tradito” la sua famiglia, le sue origini
Voleva parlare, ma, prigioniero nel ghetto del suo silenzio, non poteva parlare. Non ne era capace.
Dimenticare o ricordare
Il ghetto interiore non è solo il racconto di una dolorosa assunzione di identità e di un senso di colpa che finirà per isolare Vicente dal mondo in cui pensava di aver trovato il proprio posto. È anche la volontà dell’autore di superare l’annoso dilemma tra dimenticare e ricordare. Amigorena, come i bisnonni, è stato costretto a fuggire dalla terra in cui è nato, l’Argentina, per via delle dittature latinoamericane. È tornato in Europa con i genitori ed ha ben chiara quella sanzione di tradimento verso il proprio paese. La storia della sua bisnonna chiusa nel ghetto di Varsavia che manda lettere al figlio emigrato in Argentina è anche la sua storia, la storia del suo sangue.
Un intenso romanzo che fa riflettere sull’importanza dell’identità, sulla libertà che deriva da essa e sull’uso pericoloso che può farne la politica, come nel caso di nazionalismi spinti all’eccesso.
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